Il capitalismo, all’incirca il sistema economico-sociale che domina il mondo da almeno due secoli, ha avuto molti critici. Alberto Mingardi, in un libriccino per il Mulino (Capitalismo, 2023), si incarica di difenderlo. Il pamphlet si legge bene, contiene aneddoti gustosi e qualche riflessione preziosa, ad esempio sulla bontà del libero commercio per evitare le guerre.

Peccato che non parli del capitalismo come l’abbiamo conosciuto, ma di un modello idealizzato: a forte impianto libertario, che, se pure può avere avuto qualche manifestazione concreta nella storia (agli albori della Rivoluzione industriale inglese, fra Sette e Ottocento), poco aiuta in realtà a comprendere, o a descrivere, il fenomeno.

Che cos’è il capitalismo?

Ora, le definizioni sono difficili, ancor più per gli addetti ai lavori (provate a chiedere a uno scienziato che cos’è la scienza), ma una minima comune potrebbe essere: il capitalismo è un sistema nel quale la ricchezza viene reinvestita (in forma di capitale, appunto) per produrre nuova ricchezza; oppure, dove il capitale si separa dal lavoro come fattore di produzione.

Mingardi propone invece la seguente: «Il capitalismo è un sistema nel quale le decisioni sono prese in modo decentrato». Questa definizione, vaga (una comune anarchica è capitalismo?) e al tempo stesso parziale, è coerente con la tesi centrale del libro: il capitalismo risulta inscindibile dall’economia di mercato (lì semmai le decisioni vengono prese in modo decentrato) e anche, per molti aspetti, dal liberalismo, cioè dalle libertà civili e politiche.

Questa è in fondo l’impostazione del pensiero neo-liberale, con radici nell’opera di Adam Smith e nel «liberalismo classico», cui infatti Mingardi esplicitamente guarda: capitalismo, mercato e libertà sono un tutt’uno.

Solo che ne è passata di acqua sotto i ponti, dai tempi di Adam Smith e della Prima rivoluzione industriale. E il capitalismo ha trovato molte forme. Ad esempio abbiamo visto sorgere, declinare e per certi aspetti risorgere il capitalismo di stato, o il capitalismo basato sulle imprese e le commesse pubbliche: in sostanza, il capitalismo senza mercato. E per la verità abbiamo visto anche il mercato senza capitalismo: le cooperative di produzione e lavoro, per esempio, o la cogestione fra capitale e lavoro sul modello tedesco o scandinavo (un modello misto).

Abbiamo poi anche il capitalismo senza liberalismo: difficile, ad esempio, non definire Dubai un sistema capitalista, ma impossibile certo definirla una liberal-democrazia (è una monarchia assoluta, senza parlamento e che disconosce i diritti umani); per non parlare del caso cinese.

Abbiamo poi visto liberal-democrazie prosperare con massicce dosi di capitalismo di stato, cioè con imprese pubbliche (a cominciare dal Regno Unito, nel secondo dopoguerra), o con economie di mercato soggette a un’ambiziosa programmazione (la Francia, nello stesso periodo) o a un vasto intervento pubblico per redistribuire la ricchezza (la Germania, i paesi scandinavi): con esiti diversificati in termini di crescita economica, ma non certo di libertà civili, personali e politiche che anzi generalmente lì sono aumentate, allora (contrariamente a quel che temevano i critici neo-liberali, a cominciare da Hayek).

Mano visibile e mano invisibile

Altro tratto costitutivo del capitalismo, per Mingardi, è poi l’innovazione. Certo, qui il capitalismo dal basso, competitivo e libero, ha svolto un ruolo importante; ma lo ha svolto anche l’intervento pubblico, in varie epoche, pensiamo solo all’energia nucleare e ai programmi spaziali (a proposito: non sono stati i sovietici a mandare il primo uomo nello spazio?

C’era innovazione finanche nei sistemi socialisti, almeno nei settori più soggetti alla competizione). Quanto ai risultati, che i diversi modelli «misti» e «puri» di capitalismo riescono a generare, i tassi di crescita risultano molto diversificati, da caso a caso: alla fine, quel che sembra contare è il potenziale di convergenza (quanto più un paese è arretrato, tanto più rapidamente può crescere per raggiungere la frontiera) e le condizioni di contesto per tradurlo in atto (istruzione, etica, stato di diritto, investimenti).

L’idea delle imprese capitaliste, private, come sistema decentrato di organizzazione della produzione, risalente ad Adam Smith (la «mano invisibile»), è pure stata messa in forte discussione, da almeno mezzo secolo: uno dei più grandi studiosi del capitalismo statunitense, Alfred Chandler (1918-2007), non a caso nel 1977 ha intitolato il suo libro più celebre The visible hand, «la mano visibile».

Parlava della grande impresa americana, certo non una quisquiglia nella storia del capitalismo e tutto il contrario di un sistema decentrato: era un sistema altamente centralizzato e gerarchico. Invero, si potrebbe sostenere che proprio la pianificazione e la razionalizzazione siano i tratti distintivi del capitalismo: lo diceva già la filosofa Simone Weil (1909-1943), quando notava che Stalin, proprio lui, si era «lasciato sedurre dal sistema capitalista nella sua forma più perfetta».

Ma, ribatte Mingardi, perfettamente in linea con la visione neo-liberale (si pensi a La via della schiavitù di Hayek, 1944): pianificazione e razionalizzazione ci sono stati, certo, soprattutto nel Novecento, ma hanno rappresentato una degenerazione, una rivincita dello «scriba» sul «mercante», come direbbe Eric Hoffer. Lui, qui del capitalismo, ci propone l’essenza: libera competizione, decentrata, in cui a decidere alla fine è il mercato (quanto piace un prodotto). Va bene. Prendiamo per buona questa «essenza». Prendiamo per buoni Smith, o Hayek, e dimentichiamoci di tutto il resto. Realistico o no, sarebbe desiderabile un capitalismo di questo tipo?

Due problemi

Si pongono (almeno) un paio di problemi. Il primo: i diritti dell’uomo. Nella storia, il capitalismo della competizione di mercato i diritti li ha spesso calpestati, in nome del profitto. A volte pesantemente. L’olocausto in Congo, a fine Ottocento, il primo olocausto commesso da noi europei in età contemporanea, che fece dal 1885 al 1908 fra i 3 gli 8 milioni di morti, era interamente motivato dal profitto, ricavato dalla gomma molto richiesta sui mercati mondiali (e lo spaventoso sistema di estrazione era decentrato e sub-appaltato).

Oppure, ancora: nell’Ottocento, i sostenitori del capitalismo si sono a lungo opposti, proprio in nome del laissez-faire, alle leggi che cercavano di vietare il lavoro minorile e limitare l’orario di lavoro. La conquista dei diritti che osserviamo nella storia non è stata un frutto spontaneo del capitalismo: ma in molti casi il risultato delle battaglie contro il capitalismo, proprio contro quel capitalismo più competitivo e di mercato; per vincolarlo, per limitare cioè la libertà di impresa, ancorandola a diritti umani (civili, sociali) che devono essere inviolabili. Viva la regolazione! Verrebbe da dire.

Altro che totalitarismo: la legge degli scribi, spesso, specialmente quando operava in una cornice democratica, ha garantito i diritti e tutto sommato anche maggiore libertà.

Il secondo problema è l’ambiente. Dove in fondo il discorso è simile. Per salvare il pianeta noi oggi dobbiamo vincolare e limitare il capitalismo. E orientare anche l’innovazione tecnologica, pubblica e privata, alla grande sfida ambientale.

Mingardi avanza qui una preoccupazione: che non sia possibile vincere questa sfida preservando le nostre libertà. Ma proprio per questo, in una società democratica è fondamentale che la conversione ecologica diventi socialmente desiderabile.

Deve essere voluta, e votata, dai cittadini. Alle politiche ambientali bisogna quindi affiancare altre politiche espansive, sociali e non solo, per evitare che i costi della conversione ricadano sui più deboli. Un doppio vincolo, insomma, sulle logiche del mercato. È l’esatto contrario dello spirito di questo libro. Che se non altro ha il merito di riaprire il dibattito.

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