Errare è umano, perseverare sarebbe diabolico. Mi riferisco al Piano Ripresa e Resilienza a cui da alcune ore, ne sono certo, il nuovo governo ha preso a dedicare il proprio impegno, assieme all’incremento dell’offerta di vaccini e al contrasto delle crisi aziendali e delle loro conseguenze sociali.

Diabolico sarebbe attribuire a singole persone gli errori commessi dal luglio 2020 nella costruzione del Piano, ignorando che la responsabilità è di una cattiva cultura dell’intervento pubblico che sopravvive alle persone. Diabolico sarebbe illudersi e illudere che la soluzione stia nel sostituire tecnici ad altri tecnici senza cambiare il metodo.

Diabolico sarebbe tornare a chiudersi nelle “stanze delle decisioni” senza invece promuovere il confronto dei saperi: quelli dei centri di competenza dello Stato fra di loro e con i saperi espressi dalla società organizzata.

Per generare informazione, per cogliere aspirazioni e soluzioni che sfuggono a una pianificazione statalista, per non compiere ennesime scelte tecniche che dimenticano l’urgenza del contrasto alle disuguaglianze.  

Come ha scritto il direttore Stefano Feltri, gli errori commessi insegnano che il Piano deve evolversi definitivamente da sommatoria di progetti a strategia-paese. Insegnano, aggiungo, che bisogna occuparsi non solo del menù, ma anche della cucina, dove i piatti prendono forma.

E ricordano che l’essenza di una strategia sta nel combinare una visione emozionante e risultati attesi misurabili: solo così milioni di persone che stanno ricostruendo i propri progetti di vita in condizioni di grande incertezza possono trovare nel Piano alcune certezze attorno a cui sedimentare decisioni. Come i pali su cui è stata costruita Venezia.

La tentazione dirgista

Tutte queste lezioni erano ben note da prima che si cominciasse. Sin dall’inizio del percorso le organizzazioni della società le hanno segnalate in modo insistente e puntuale, ottenendo ascolto solo a dicembre. Un ascolto tardivo, che ha prodotto primi miglioramenti. E allora sia chiaro che solo aprendosi al confronto il nuovo governo potrà scrollarsi di dosso la cattiva cultura dell’intervento pubblico.   

Perché insisto su questo punto? Perché ho trascorso troppi anni nelle istituzioni pubbliche per non immaginare la “tentazione dirigista” – talora la propensione - di chi si trova a governare in condizioni di emergenza e i danni che cedere a questa tentazione produce.

La tentazione di nascondere decisioni politiche dentro decisioni tecniche. La tentazione di farlo affidandosi a un mix micidiale di gerontocrazie ministeriali ed “esperti” estemporanei, con il tratto comune della finanza, pubblica o privata che sia.

La tentazione di disegnare dal centro standard e bandi per salute e scuola, mobilità e riqualificazione ambientale, trasferimento tecnologico a Pmi e cultura, uguali per ogni contesto, sopravvalutando i propri saperi e restando cechi ai luoghi e ai saperi della società, della ricerca e dei Comuni. La tentazione di considerare il “partenariato” chiesto dal Codice Europeo come un prezzo da pagare, anziché come il principale alleato per filtrare i progetti e modificarli ampliando la conoscenza.  

Il tempo da usare bene

Non c’è tempo per il dialogo sociale che chiedo? Tutto al contrario. Proprio il tempo limitato che è rimasto obbliga a questa strada, come parte di due mosse, contemporanee e simmetriche.

Da un lato, occorre mobilitare ogni centro di competenza dello Stato: le università e i centri di ricerca; le imprese pubbliche, a cui affidare in modo esplicito e monitorabile forti missioni strategiche; e poi, il punto debole da rafforzare, i Ministeri, in ognuno dei quali motivare o costituire ex novo, anche con immissioni da fuori, Direzioni Generali del Piano.

Dall’altro lato, appunto, occorre raccogliere le proposte concrete e dettagliate che in questi sette mesi il “partenariato” ha avanzato, obiettivo strategico per obiettivo strategico, valutarle e poi accoglierle o respingerle, motivatamente, in un confronto acceso e informato.

Lasciatemi richiamare, a mo’ di esempio, le “alzate di palla” che il Forum Disuguaglianze Diversità, in alleanza con diverse forze della società, ha messo sul tavolo in questi mesi. E che sono lì pronte a essere usate dal nuovo governo.

Dal lavoro con il Politecnico di Milano (Dastu), nel luglio 2020, in coincidenza con la svolta in Consiglio europeo, nasceva una proposta strategica in tema di servizi pubblici e infrastrutture fondamentali e di rimozione di ostacoli all’impresa, di cui si descriveva anche la “cucina” nei diversi territori: trenta proposte del Politecnico su casa, spazi pubblici, mobilità, sono pronte per i nuovi ministri.
In ottobre, il ForumDD chiedeva di “rimuovere dal tavolo la massa di progetti raccolto dal governo nella sua ‘falsa partenza’” e tornava a suggerire un metodo diverso. In novembre, con Legambiente, avanzavamo proposte per coniugare giustizia sociale e ambientale: «la transizione ecologica è solidale o non è», dichiara oggi Nicolas Hulot, il primo dei quattro ministri che in Francia si sono succeduti alla guida del nuovo ministero della Transizione Ecologica, a riprova che non basta il nome.

Pochi giorni dopo con ForumPA e Movimenta indicavamo quattro mosse concrete per rigenerare subito le Pubbliche Amministrazioni come condizione per il successo del Piano, partendo dalla trasformazione del rinnovamento generazionale (che tocca il 15 per cento dei pubblici dipendenti) in una strategia di assunzioni con bandi moderni, realizzabili in 3-6 mesi: un appello che ha raccolto adesioni ampissime.

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L’investimento sulla pubblica amministrazione

Su queste basi, il 7 dicembre, quando nelle prime bozze del Piano leggevamo di un governo velleitario della sua attuazione, indicavamo l’alternativa. E il 13 dicembre con il presidente Mario Monti chiedevamo un forte investimento di risorse umane nella filiera pubblica territoriale (Comuni, prima di tutto) che attuerà il 60% circa degli interventi, e l’affidamento delle responsabilità nazionali di guida a «strutture e vertici delle amministrazioni centrali … ove necessario sostituiti, senza esitazioni, anche con immissioni esterne opportunamente selezionate».

Chiedevamo, poi, che il piano adottasse il «linguaggio dei risultati». Solo così si può verificare la validità dei progetti proposti. Infine, il 12 gennaio, presentavamo una valutazione del Piano poi approvato dal governo, illustrando la ricorrente assenza di indicazione dei risultati attesi e avanzando proposte dettagliate di cambiamento: per dare forza ai tre obiettivi strategici trasversali di riduzione delle disuguaglianze di genere, generazionali e territoriali; per aggiungere un quarto obiettivo trasversale, “dare dignità e partecipazione strategica al lavoro”; per muovere verso un sistema di infrastrutture sociali integrate; per rendere efficaci gli interventi per scuola, casa, aree marginalizzate e transizioni digitale ed ecologica.

Queste nostre proposte, come quelle avanzate da altre reti e organizzazioni di cittadinanza, dalle organizzazioni del lavoro e da quelle dell’impresa, attendono una risposta dal nuovo governo.

Si dia vita subito a due settimane di confronto, non sui “massimi sistemi”, non sul complesso del Piano, ma sui singoli obiettivi strategici.

Si impegnino i nuovi ministri e le nuove ministre a presidiare il confronto fra le loro tecno-burocrazie, selezionate e rinnovate, e il partenariato. Se ne facciano garanti. In un primo incontro si ascolti. Ci si ritiri poi per valutare e deliberare. Si portino infine le risposte a un secondo incontro, positive o negative che esse siano, ma motivate e pubbliche.

E’ il solo modo per trasformare il Piano in una strategia-paese. E’ il solo modo per ricostruire fiducia e riparare un tessuto democratico gravemente lacerato.

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