Negli ultimi giorni, alcuni articoli di Selvaggia Lucarelli sul Fatto Quotidiano hanno riacceso il dibattito sul costo della vita a Milano, in particolare sulle insostenibili condizioni del mercato immobiliare, sia per chi affitta che per chi compra.

Il problema è noto da anni: Milano è ormai diventata il centro gravitazionale di quasi ogni attività economica (tanto che moltissime sedi di grandi società sono lì, non nella capitale) e chi vuole fare carriera, costretto o meno, deve necessariamente entrare nella sua orbita.

La città, però, non è preparata ad accogliere l’enorme quantità di persone che vorrebbero trasferirsi. Risultato: la domanda supera di gran lunga l’offerta e i prezzi crescono a livelli insostenibili.

Non esistono soluzioni semplici a questa situazione, come dimostrano i tentativi infruttuosi di molti governi nazionali e locali in paesi ben più virtuosi dell’Italia, dai Paesi Bassi, a Berlino, fino alla California.

Nel nostro paese, però, sembra che si faccia di tutto per rendere la vita semplice a chi gode maggiormente di questa bolla: i proprietari di casa.

Più che in ogni altro paese, in Italia la casa è un diritto, giustamente tutelato con particolare attenzione dalla politica. Quando la Costituzione (art. 47) dichiara che la Repubblica «favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione», però, si riferisce implicitamente al diritto di possedere la casa in cui si vive, non a quello di avere una casa al mare, una in montagna e magari due appartamentini in centro per avere una “piccola” rendita.


Incentivi alla rendita

Eppure, oggi i proprietari di casa pagano le stesse tasse – Imu a parte – qualunque sia il numero di abitazioni che possiedono. I margini molto alti per chi affitta, uniti all’altissima domanda, rendono il mercato molto meno dinamico.

Il proprietario ha infatti interesse ad aspettare qualcuno che paghi un prezzo più alto, piuttosto che tentare di avere la casa sempre occupata da un inquilino.

Dal 2011, per gli appartamenti in affitto è possibile applicare la cosiddetta cedolare secca, un regime di tassazione agevolato che prevede una flat tax con aliquota fissa al 21 per cento (10 per cento per gli affitti a canone concordato).

Tra i pochi paletti, per beneficiarne non si può ricorrere all’aggiustamento automatico del canone all’inflazione (tralasciando l’ultimo anno, i prezzi sono rimasti sostanzialmente invariati dal 2011 a oggi).

In pratica, a una persona che possiede un appartamento con tre camere da letto, che affitta a 600 euro l’una, viene applicata un’aliquota di gran lunga inferiore rispetto a un lavoratore che guadagna la stessa cifra.

Per i redditi da lavoro dipendente superiori a 8 mila euro circa, infatti, l’aliquota è del 23 per cento, che diventa 25 per i redditi sopra i 15 mila e 35 per quelli sopra i 28 mila, più o meno quello che si ricava da un appartamento con quattro stanze a 600 euro al mese l’una.

Meglio affittare che lavorare 

Per fare davvero un confronto, però, bisogna osservare l’aliquota media: ebbene, da circa 30 mila euro in su diventa più conveniente dare in affitto una casa piuttosto che andare a lavorare (per un single, per le famiglie diventa conveniente ancora prima).

Un ricavo da canoni d’affitto di questo livello non è generalmente così semplice da raggiungere, ma Milano è un’altra cosa.

Chi ha dovuto affrontare la ricerca di una casa sa benissimo che spesso i proprietari possiedono più di un appartamento. Basta un monolocale a mille euro al mese e un trilocale a 500 euro a camera ed ecco che ci si arriva.

La cedolare secca, poi, si applica anche agli affitti brevi, ma solo fino a quattro appartamenti per contribuente.

Insomma, quattro appartamenti che generano un reddito netto di 50 euro a notte (ed è una stima davvero cauta, considerando i prezzi di AirBnb a Milano), affittati per venti giorni al mese, generano un reddito di 48 mila euro tassati al 21 per cento, contro il 36 per cento circa di retribuzione lorda trattenuta dalla busta paga di un dipendente tra imposte e contributi.

La cedolare secca non si applica alle società, che rappresentano una quota consistente dei proprietari di immobili a Milano e per cui vanno applicate altre forme di disincentivo per sgonfiare la bolla.

Ma sarebbe miope pensare che la speculazione nella città sia solo frutto delle fantomatiche multinazionali, senza considerare gli enormi guadagni a tassazione agevolata per tutti quei fortunati che si sono trovati proprietari di una seconda, terza o quarta casa a Milano.

Rivedere la cedolare secca, che ci costa ogni anno almeno 1 miliardo di euro di minor gettito, potrebbe essere un primo passo verso un vero accesso alla casa per tutti.

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