Il passaggio di testimone al vertice della Cisl, il secondo più grande sindacato italiano che autocertifica oltre quattro milioni di iscritti, è stato celebrato oggi – mercoledì 3 marzo – in pompa magna. Al palazzo dei Congressi dell’Eur Annamaria Furlan, prima donna alla guida dell’organizzazione di matrice cattolica, ha ceduto lo scettro al suo braccio destro, il segretario aggiunto Luigi Sbarra. In questi mesi di pandemia, ha detto, «abbiamo toccato il picco di oltre 9 milioni di persone in cassa integrazione e corriamo il rischio di perdere centinaia di migliaia di posti di lavoro nel 2021», dopo «i quasi 500mila» già persi nell'ultimo anno, afferma nella relazione dopo l'elezione, indicando tra gli "obiettivi" da perseguire «nell'immediato la piena realizzazione del piano vaccinale e la proroga delle protezioni sociali, a cominciare dall'estensione del blocco dei licenziamenti, degli ammortizzatori e delle indennità Covid».

Tra gli invitati ci sono anche gli attuali leader degli altri due sindacati confederali, Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri, insieme ai loro predecessori Susanna Camusso e Carmelo Barbagallo, e i familiari di Franco Marini, ultimo “grande vecchio” del sindacato di via Po appena portato via dal Covid, che sarà ricordato con un video a inizio lavori.

Furlan aveva già annunciato da tempo il cambio al vertice e designato un erede che non ha trovato rivali né ostacoli sulla strada dell’incoronazione. Eppure c’è un retrogusto dolciastro nella vicenda, un inquietante silenzio tutto attorno e soprattutto molti dubbi sulle ragioni della svolta in un’organizzazione che appare da tempo pesantemente condizionata da troppe faide interne, al centro e in periferia.

Quale sia il problema alla base del pensionamento anticipato della leader non è dato sapere. Furlan non ha spiegato in modo comprensibile il perché delle sue dimissioni prima del termine del mandato, fissato per il 2022.

Ha detto che si ritirerà a casa, nella sua Genova, a riposarsi, a «fare la nonna» e a «cercare di smettere di fumare». Ha anche sottolineato: «Avrei potuto stare ancora due anni. Scelgo di non farlo per dare spazio ad altri». Ha ricordato che «è il momento del cambiamento» ma l’avvicendamento appare più che altro nel segno della continuità all’interno di un gruppo dirigente molto chiuso in sé stesso.

Sbarra infatti non è molto conosciuto se non nella ristretta cerchia della segreteria confederale Cisl nella quale è stato chiamato dall’allora segretario generale Raffaele Bonanni. Né il suo ingresso rappresenta un cambio generazionale, avendo l’erede solo due anni meno di Furlan.

Ancora più misterioso è il modo in cui Sbarra arriva al vertice della Cisl, con un meccanismo diverso dalle normali procedure democratiche. Domani infatti, mentre il consiglio esecutivo, cioè il parlamentino della Cisl, ratificherà l’investitura di Sbarra, contemporaneamente prenderà avvio il percorso congressuale che, dai luoghi di lavoro alle istanze territoriali, terminerà soltanto nel prossimo dicembre con un congresso confederale che non eleggerà un nuovo gruppo dirigente.

Un congresso cinese

La nuova segreteria si insedia adesso, senza discussioni o opzioni alternative, e non è quindi chiaro quale sarà il cuore del dibattito congressuale, visto che tutte le carte saranno già state date. Una modalità che ai pochi critici interni, che ben si guardano dall’uscire allo scoperto, ricorda il partito comunista cinese più che i fasti dell’organizzazione di Pierre Carniti, nipote della poetessa Alda Merini e intellettuale prestato al sindacato dei metalmeccanici. Carniti fece della Fim-Cisl un laboratorio dell’esperienza sindacale degli anni Settanta, prima di diventare leader di tutta la Cisl tra il 1979 e il 1985, i cosiddetti anni di piombo, uno dei momenti più difficili per la democrazia italiana.

È vero che neanche Furlan è stata eletta, ma solo perché fu chiamata a sostituire in corsa, in quanto fedelissima, proprio Bonanni, travolto nel 2014 dallo scandalo della “pensione d’oro”. Un’inchiesta del Fatto Quotidiano rivelò che la retribuzione del segretario generale dell’epoca era cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni di servizio, fino a 336mila euro l’anno, il triplo dello stipendio della sua pari grado della Cgil Susanna Camusso. Il tutto per consentirgli di andare in pensione con un assegno di oltre 5 mila euro netti al mese.

A sua volta anche Bonanni nel 2006 era arrivato al vertice senza una vera elezione, grazie a una manovra di palazzo ai danni del precedente segretario Savino Pezzotta.

Pezzotta, già operaio tessile, grande rivale del segretario della Cgil Sergio Cofferati sul tema caldo della soppressione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, fu costretto alle dimissioni dopo una sollevazione interna che aprì le porte alla sua rapida sostituzione con Bonanni.

La dimissionaria Annamaria Furlan, da sempre amica di Bonanni, nella sua lunga stagione alla guida della Cisl ha dovuto sanare diverse ferite purulente, come spesso tocca alle donne. Non soltanto ha dovuto occuparsi degli strascichi del caso del suo mentore ma ha dovuto anche vedersela con il caso del tesseramento gonfiato, lo scandalo scoppiato nel settore della Funzione pubblica, guidata in quel periodo da Giovanni Faverin, nel 2017, quando venne alla luce che solo 70mila delle 300mila iscrizioni dichiarate erano autentiche e realmente sottoscritte da lavoratori.

Furlan ha dovuto fare le grandi pulizie interne, ha varato l’operazione “casa di vetro” pubblicando sul sito della Cisl gli stipendi percepiti da ogni dirigente e impegnandosi a una certificazione più attenta del tesseramento, in attesa della legge sulla rappresentanza. Inoltre è spettato sempre a lei ricucire i rapporti, arrivati al minimo storico, con la Cgil, guidata al suo arrivo da un’altra donna, Susanna Camusso.

I bene informati sulle dinamiche interne alla Cisl spiegano che la sua vera missione è stata un’altra: far maturare le condizioni per il grande ritorno e l’incoronazione di Sbarra, il predestinato, che in seguito allo scandalo Bonanni, come molti altri dei dirigenti più vicini al vecchio leader, era stato costretto a fare un passo indietro tornando a dirigere la categoria di provenienza: la federazione dei lavoratori del comparto agroalimentare Fai-Cisl.

In effetti è tra i braccianti della Locride e della piana di Gioia Tauro che il nuovo segretario generale ha mosso i primi passi, arrivando alla segretaria regionale calabrese negli anni bui in cui l’unica voce che denunciava lo strapotere dei boss della ‘ndrangheta su quelle terre era quella di Teresa Cordopatri, la “baronessa coraggio” morta nel 2018. Sbarra fu chiamato a testimoniare su quella vicenda davanti alla Commissione antimafia e si schierò con la baronessa. Della sua attività sindacale per il resto si sa poco.

L’uscita di Bentivogli

Non sfugge invece la scelta di tempo della sua incoronazione al vertice nazionale. Segue di pochi mesi l’uscita di scena di quello che, almeno all’esterno, era percepito come il candidato naturale alla segreteria generale, Marco Bentivogli. Nel giugno del 2020 il conosciutissimo segretario dei metalmeccanici si è improvvisamente dimesso dalla Fim che guidava dal 2014. Impegnatissimo sui temi delle nuove professionalità e delle trasformazioni del lavoro richieste dall’industria 4.0, titolare di una fitta rete di rapporti politici come quello con l’ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, fautore di un nuovo umanitarismo riformista in grado di parlare anche ai giovani millennial, il cinquantenne Bentivogli ha qualificato ufficialmente la sua decisione di abbandonare, con la guida della Fim, ogni ambizione di carriera come una non meglio specificata «libera scelta».

Più realisticamente deve essere stata una scelta obbligata da una fronda interna: con una lettera alla segreteria, una quarantina di dirigenti lo avevano accusato di eccessivo protagonismo. Infatti lo stesso Bentivogli ha ammesso di sentirsi sotto attacco spiegando che le sue dimissioni fossero l’unica «condizione per proteggere l’organizzazione», la Fim, lasciata in mano al giovane Roberto Benaglia. Nella giostra di teste mozzate e leader defenestrati che sembra caratterizzare la storia recente del sindacato fondato nell’aprile del 1950 da Giulio Pastore, viene dunque il turno del calabrese Luigi Sbarra. Per alcuni ex dirigenti che si guardano bene dall’esprimersi pubblicamente, Sbarra non è altro che il garante di una oligarchia sindacale chiusa, coesa, autoreferenziale e focalizzata sulla propria conservazione, dunque per nulla propensa a mettersi in discussione o a confrontarsi con il nuovo. «Un potere feudale», dice un vecchio dirigente non nascondendo l’incredulità. Di certo c’è che, in un mondo dominato dai social media, l’immagine televisiva di Sbarra non è delle più brillanti.

Tre mesi fa una giornalista del programma di Raitre Report – all’interno di un’inchiesta dedicata proprio alle faide interne alla Cisl – ha provato a chiedere a Sbarra la data esatta della sua assunzione all’Anas, per sapere se era precedente o coincidente con la sua nomina a segretario della Cisl della Calabria. L’interessato non solo non ha risposto ma si è premurato di minacciare la cronista di far intervenire i suoi legali. E questa ha finito per essere, a oggi, l’immagine pubblica del leader del secondo sindacato italiano dei lavoratori.

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