I dati sull’inflazione pubblicati oggi dall’Istat rappresentano un segnale positivo per la situazione economica italiana. Per la prima volta da maggio 2021 non c’è stato un aumento dell’inflazione rispetto al mese precedente. Ciò ha permesso che l’inflazione annua – calcolata sui dodici mesi da luglio 2022 a giugno 2023 – crescesse in maniera considerevolmente inferiore. A giugno il dato annuale infatti è del +6,4 percento, mentre il mese scorso era del +7,6 percento.

Anche l’inflazione di fondo (core) – ossia l’inflazione calcolata su un paniere di beni da cui vengono esclusi quelli volatili come materie prime alimentari e energia – rallenta ulteriormente dal +6,0 percento al +5,6 percento. 

L’inflazione resiste

Tra l’andamento dell’ inflazione di fondo e dell’ inflazione generale c’è però una differenza se le si guarda nel periodo annuale o semestrale. Nella prima metà dell’anno solare 2023 – da gennaio a giugno – l’inflazione che in questo caso si definisce “acquisita” per il 2023 è pari al +5,6 percento. Quella acquisita per il 2022 era pari al +6,4 percento. Mentre l’inflazione di fondo acquisita per il 2023 è pari al +4,9 percento, invece quella acquisita per il 2022 al +2,9 percento. In pratica se la prima dà segnali di rallentamento come l’annuale, la seconda registra invece una crescita. 

La situazione così raffigurata manifesta una certa resistenza dell’inflazione. Dopo tanti mesi le sue cause sono ormai note ed è chiaro che è stata la combinazione di diversi fattori ad aver traghettato i paesi occidentali da economie pericolosamente poco riscaldate a economie pericolosamente – in segno opposto – troppo surriscaldate: collo di bottiglia nell’offerta dovuto alla pandemia, eccesso di domanda post Covid-19, guerra in Ucraina.

I maxi-profitti delle aziende

Ma adesso questi fattori non pesano più come prima e infatti l’indice dei prezzi su base annua a giugno 2023 è rallentato da un +9,3 percento a un +7,5 percento, così come i prezzi dei servizi sempre su base annua – anche se in misura minore – cresciuti di uno 0,1 percento in meno rispetto all’indice calcolato il mese scorso. 

I prezzi dei prodotti lavorati stanno crescendo meno, è vero ed è un bene. Nello stesso periodo però le materie prime hanno smesso di crescere, tanto che l’Istat riporta un «apprezzabile calo», ad esempio sulle materie prime energetiche che sono tra le più importanti nella filiera produttiva. A fronte di ciò non si registra un altrettanto pronto adeguamento dei prezzi al consumo.

Se i prezzi delle materie prime, come ad esempio l’energia, scendono, diminuiscono i costi che le imprese devono affrontare per trasformare quella materia prima in prodotto lavorato, ma se queste non diminuiscono contestualmente i prezzi di questi ultimi – o non diminuiscono abbastanza – , l’inflazione persisterà ad un livello eccessivamente alto. È compito della politica controllare che i profitti delle imprese siano adeguati ai costi e che queste non li scarichino interamente sui prezzi pagati dai consumatori.

A maggior ragione ora che si apre una stagione di rinnovi dei contratti collettivi che rappresenterà un amento dei costi del lavoro in numerosi settori per adeguare i salari all’inflazione. A questo proposito la governatrice della Banca centrale europea, Christine Lagarde, ha invitato calorosamente le imprese «ad assorbire l’aumento del costo del lavoro nei suoi margini» anziché trasferire anche questi sulle famiglie.

LAPRESSE

Le parole della Cgil

I dati presentati dall’Istat erano stati anticipati a fine giugno e le previsioni sono state confermate oggi. In quell’occasione il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, si era scagliato contro quella che chiama «un’inflazione da profitti».

Landini ha accusato il governo di «non tassare gli extra profitti» che sembrano quindi essere il fattore trainante dell’inflazione attualmente.

In più il segretario generale ha stigmatizzato le misure economiche adottate dall’esecutivo che «riducendo sostegni alle famiglie» e «non rinnovando i contratti del pubblico impiego» – dando anche un pessimo segnale ai privati –  «scaricano gli effetti negativi delle politica economica sui redditi fissi» e sui pensionati. 

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