Il simbolo del declino dell’automobile italiana si trova in Basilicata, in una frazione del comune di Melfi, Potenza. Qui c’è uno stabilimento che occupa una superficie di 175 ettari, dà lavoro a 5.800 persone ed è il più grande impianto che Stellantis, il gruppo nato dalla fusione tra la ex Fiat e i francesi di Peugeot-Citroen, possiede in Italia.

Per anni Melfi ha rappresentato il fiore all’occhiello della casa torinese: inaugurata nel 1993, la fabbrica è stata una delle più produttive al mondo. E dal 2014 ha vissuto una straordinaria fase di rilancio grazie all’acquisizione da parte di Fca dell’americana Chrysler: a Melfi fu affidata la costruzione della Jeep Renegade, un successo internazionale, affiancata dalla 500x e, dal 2019, dalla Jeep Compass. Nel 2015 furono assunti 1.700 lavoratori e un anno dopo Melfi sfornava 364.700 auto.

Oggi la grande fabbrica realizza meno della metà di quei volumi ed è stata superata da Pomigliano, il regno della Panda. Una frenata che ha coinvolto tutto il gruppo in Italia, dove il numero di auto e veicoli commerciali prodotti è sceso da oltre un milione nel 2016 a meno di 700 mila nel 2022.

Gli impianti hanno sofferto i cali di produzione dovuti alla pandemia, alla carenza di semiconduttori e anche alla nuova tendenza delle case europee di non spingere tanto sui volumi quanto sul valore, privilegiando l’offerta di modelli più costosi. Stellantis nel primo semestre di quest’anno ha messo a segno un aumento del risultato operativo dell’11 per cento rispetto al medesimo periodo del 2022, con un margine del 14,4 per cento, mentre l’utile netto ha raggiunto 10,9 miliardi di euro, in crescita del 37 per cento.

I timori dei sindacati

Eppure, nonostante il buono stato di salute del gruppo italo-francese, sul futuro di Melfi si allungano le ombre della transizione energetica: gli operai, le loro famiglie, le 20 aziende di fornitori attaccate all’impianto con i loro tremila dipendenti, non sanno quale sarà il destino della fabbrica. Si sentono soli, i piani annunciati da Stellantis non li convincono, temono di essere abbandonati dal governo e dalla Regione.

Per questo i sindacati dei metalmeccanici, una volta tanto uniti, hanno indetto lunedì 18 lo sciopero di otto ore. A differenza dei colleghi americani dell’Uaw (United Automobile Workers) che per la prima volta bloccano contemporaneamente gli stabilimenti di Ford, General Motors e Stellantis (ex Chrysler), gli italiani non chiedono aumenti di stipendio ma sicurezza: da Stellantis vogliono informazioni più dettagliate, con le date del lancio dei nuovi modelli messe nero su bianco.

La casa automobilistica ha annunciato che a Melfi verranno prodotte cinque vetture elettrificate e una linea pilota, che affianca quelle di Renegade, 500x e Compass, è già stata avviata in vista del lancio di un piccolo suv il prossimo anno. Gli altri quattro modelli dovrebbero essere immessi sul mercato entro il 2030. Ma sui tempi non ci sarebbe sufficiente chiarezza, secondo i lavoratori.

E poi il timore dei sindacati è che queste auto, in quanto elettriche e più semplici, avranno bisogno di meno personale e che dunque il dimagrimento di Melfi continui. «La situazione è diventata insostenibile anche a seguito delle scelte scellerate dell’azienda di continuare con gli incentivi all’esodo e le trasferte senza che ve ne siano le condizioni» protesta la Fiom.

Martedì 19, nel corso di un incontro con i sindacati, Stellantis ha assicurato che a Melfi nei prossimi giorni sarà illustrato il piano di avanzamento con i tempi dei nuovi modelli elettrici. Ma il gruppo ha lanciato anche la palla nel campo del governo, che si sta dimostrando incapace di gestire la transizione di uno dei più importanti settori industriali del Paese.

A quanto riferiscono i sindacalisti della Fim Cisl, i manager di Stellantis giudicano «il piano italiano di incentivi per le auto elettriche non adeguato e non in linea con i maggiori Paesi europei». Il gruppo automobilistico ha aggiornato i sindacati riguardo alla discussione in corso col ministero delle Imprese e del Made in Italy, che dovrebbe tradursi entro fine settembre in un documento che definirà un piano di lavoro e a cui seguirà un confronto con le organizzazioni sindacali. Parole che non placano i lavoratori: da mesi i sindacati chiedono un incontro con il ministro delle Imprese Adolfo Urso sulla transizione energetica.

Il governo però non decide, si barcamena tra incentivi modesti e una difesa dei veicoli a benzina da giocarsi alle prossime elezioni europee. E così tra gennaio e agosto la quota delle auto elettriche sulle immatricolazioni in Europa è salita al 15,1 per cento, in Italia stiamo al 3,9 per cento.

Il caso Marelli

Nel frattempo, proprio in concomitanza con lo sciopero a Melfi, è scoppiato il caso Marelli: l’ex azienda Fiat ceduta nel 2018 alla giapponese Ck Holdings, controllata dal fondo americano Kkr, ha deciso di chiudere lo stabilimento di Crevalcore nel Bolognese.

Anche questa fabbrica, che produce componenti per i motori a benzina, è vittima della transizione verso l’elettrico. L’azienda ha spiegato che le ragioni della chiusura sono duplici: le perdite per 6 milioni di euro nei conti di quest’anno, anche a causa dell’aumento del costo dell’energia, nonché la dinamica negativa delle attività legate al motore endotermico che oggi porta a un utilizzo del 45 per cento della capacità produttiva e calerebbe anno dopo anno fino al 20 per cento nel 2027.

I metalmeccanici dicono di aver da tempo sollecitato ai politici una serie di misure per favorire le riconversioni delle fabbriche legate al motore termico, senza le quali la chiusura di Crevalcore sarà solo la prima di una lunga serie.  Un piano di sostegno all’industria automobilistica è urgente, ma per ora non ve n’è traccia.

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