Ci sono parole e concetti che nel tempo perdono valore nel dibattito pubblico, pur restando centrali, almeno a livello teorico, nella società in cui viviamo.

Uno di questi è “dialogo sociale”, coppia di parole che rischia di evocare dinamiche del passato e rituali distanti dalle urgenze del presente.

Ma a vedere il programma di lavoro sottoscritto nei giorni scorsi dai sindacati e dalle rappresentanze datoriali europee, i contenuti del dialogo sociale sembrano tutt’altro che distanti e andrebbero anzi valorizzati e messi in atto.

Non è certo un fenomeno nuovo, è ormai la settima volta che le parti sociali firmano un programma triennale davanti alla Commissione europea che ne riconosce l’autonomia e la centralità.

Ma non viviamo in tempi normali e le sfide alle quali i lavoratori e le imprese sono chiamate a rispondere sono tutt’altro che ordinarie o mutuabili dal passato.

Soprattutto se si pensa che oggi tendiamo a confinare la pratica delle relazioni industriali a materie molto specifiche, quasi avessimo creato una riserva indiana per alcuni contenuti che si affidano alle parti sociali che vengono però sempre più svuotate del loro ruolo originale.

Il salario minimo

Il tema del salario minimo, è stato ricordato più volte, va in questa direzione, così come il ruolo sempre più periferico che viene dato alle parti in materia di mercato del lavoro e di costruzione sociale delle professioni.

Una distanza abissale rispetto alle risposte avanzate dai sindacati nei primi decenni delle rivoluzioni industriali, nei quali svolgevano un ruolo centrale nel plasmare i mestieri, nel diffondere e tutelare le competenze, nella creazione e governo vero e proprio di alcuni mercati.

Ruolo che con la produzione di massa e la standardizzazione dei lavoratori si è pian piano perso ma che sembra non tornare oggi, in un momento nel quale si parla tantissimo di competenze e professionalità, senza però discutere mai di chi possa governare mercati nei quali lo scambio si gioca sempre di più su questi elementi.

E così è interessante notare come tra le sei priorità individuate a livello europeo dalle parti sociali si collochino le azioni per governare la complessa e potenzialmente dolorosa transizione ecologica.

In particolare si segnala l’urgenza e la disponibilità a lavorare sui fabbisogni di nuove competenze, sulla riqualificazione, sul redesign delle professioni, sull’organizzazione delle transizioni verso altri lavori e sui cambiamenti nell’organizzazione del lavoro.

Azioni sulle quali, almeno in Italia, si vede poco all’orizzonte e rispetto alle quali anche i pochi appelli delle forze sindacali e datoriali sembrano inascoltati, pur a fronte di un governo e di territori che hanno l’importante onere di spendere risorse dedicate proprio a questo.

Risorse che devono servire a governare processi che non sono stati determinati da coloro che ne possono subire le conseguenze, ma da decisioni politiche a livello nazionale e sovranazionale che gioverebbero senza dubbio del ruolo delle relazioni industriali e del dialogo sociale nella loro governance operativa, e non solo con accordi sui principi.

Disallineamento del lavoro

Ulteriore tema che viene richiamato dall’accordo europeo è quello del disallineamento di competenze tra domanda e offerta di lavoro, particolarmente sollecitato dalle trasformazioni digitali e ambientali.

Anche in questo ambito le parti sottolineano il loro ruolo centrale in quella che definiscono “skills intelligence” proprio in virtù della loro prossimità ai processi produttivi e quindi ad una comprensione potenziale dei cambiamenti maggiore rispetto a strategie calate dall’alto.

Una candidatura quindi, almeno a livello europeo, ad essere soggetti in grado di supportare dei sistemi settoriali e territoriali nella manutenzione e ri-progettazione di quei mercati del lavoro che oggi faticano a funzionare, sia per mancanza di competenze che per condizioni e modalità di lavoro che non rispondono più, in molti casi, ai desideri e alle aspirazioni soprattutto dei più giovani.

Passare dalle dichiarazioni di principio e dalla rivendicazione del proprio ruolo alla realtà del governo del lavoro contemporaneo non è però facile.

E sono proprio i sindacati e le associazioni datoriali nazionali e territoriali che dovrebbero farsi carico di questo onere, a partire dall’osservazione, studio e comprensione dei cambiamenti per proporre interventi e progettualità su ambiti specifici riallineando e declinando le priorità europee nei loro campi d’azione, riconquistando un ruolo che nessuno gli darà se non si faranno spazio da soli.

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