Negli Stati Uniti la chiamano «The Great Resignation», termine che riecheggia «The Great Recession» del 2008-2009, ma che stavolta racconta la grande ondata di dimissioni che si sta osservando nel paese. Un fenomeno che non è rimasto confinato nel paese a stelle e strisce. Anche in Italia si sta assistendo a un importante aumento dei lavoratori a tempo indeterminato che scelgono di terminare volontariamente il proprio rapporto di lavoro.

Volendo usare un termine più figurativo, potremmo parlare di ondata di dimissioni. I primi dati da cui è emerso questo fenomeno sono quelli delle comunicazioni obbligatorie, raccolti e aggregati dal Ministero del Lavoro. Come evidenziato in una analisi pubblicata qualche giorno fa sul sito di analisi economica lavoce.info, nel secondo trimestre di quest’anno, si sono dimessi circa 485 mila lavoratori e lavoratrici, circa 45 mila in più rispetto allo stesso trimestre del 2019 (+10 per cento).

Questa crescita in termini assoluti si riflette anche in una crescita nella percentuale di contratti terminati per dimissioni, che sale al 19 per cento rispetto al 14-15 per cento degli anni precedenti. Ed è importante notare come tutto questo avvenga anche a fronte di un contesto in cui il mercato del lavoro non è ancora del tutto uscito dalla crisi e non ha quindi raggiunto i numeri su cui viaggiava prima dell’arrivo del Covid-19.

Un ulteriore spunto arriva dai dati dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps elaborati dal sito di analisi economica Reforming.it, dati che mostrano risultati piuttosto simili a quelli delle comunicazioni obbligatorie e da cui emerge come l’aumento delle dimissioni abbia interessato soprattutto il Nord del paese. Sia nel Nord-Ovest che nel Nord-Est, infatti, il numero di dimissioni sul totale delle cessazioni è stato tra il 35 e il 40 per cento nel secondo trimestre del 2021, mentre nel resto del paese il dato si è attestato intorno al 30 per cento. Questa tendenza è in apparente contrasto con i dati degli Stati Uniti, dove il tasso di dimissioni è più alto nel Sud e nel Midwest, mentre le aree tradizionalmente più dinamiche del paese – Nordest e Ovest – presentano un dato meno elevato.

Nuovi dati sul terzo trimestre dal Veneto

I dati più recenti a disposizione sono quelli invece dell’Agenzia del lavoro della Regione Veneto, Veneto Lavoro. Sebbene infatti i dati delle comunicazioni obbligatorie siano a disposizione del Ministero del Lavoro quasi immediatamente, vengono resi pubblici con alcuni mesi di ritardo in un rapporto trimestrale. Veneto Lavoro, però, offre quasi in tempo reale un rapporto mensile sull’andamento dell’occupazione nella regione. In attesa dei dati relativi a ottobre, è già disponibile un bollettino sui primi nove mesi del 2021, che include quindi un ulteriore trimestre rispetto ai dati disponibili a livello nazionale. I dati veneti mostrano che la crescita delle dimissioni è proseguita anche nel terzo trimestre: 16 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2019, anche se in calo rispetto al secondo trimestre di quest’anno.

Il dato in calo sembrerebbe indicare uno «scoppio della bolla» delle dimissioni. In un altro articolo pubblicato su lavoce.info, però, Bruno Anastasia, Maurizio Gambuzza e Maurizio Rasera, ricercatori di Veneto Lavoro, hanno evidenziato che, se si considerano solo i dati sui rapporti di lavoro a tempo indeterminato, la crescita delle dimissioni è avvenuta anche rispetto al periodo aprile-giugno 2021. In totale, nei primi nove mesi dell’anno, le dimissioni hanno rappresentato il 67 per cento delle cessazioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, contro il 62 per cento del 2020 e il 60 del 2019. Dalla stessa analisi emerge come l’aumento di gran lunga più significativo si sia verificato nel settore della sanità e dei servizi sociali, cui seguono, con molto distacco, l’industria metalmeccanica e le costruzioni.

Cosa sta succedendo

Come spiegare questo fenomeno? Con la dovuta cautela, data la novità del fenomeno, possiamo avanzare due ipotesi: una linea interpretativa «retrospettiva» e una linea interpretativa «prospettiva». Da un lato, ci sono coloro che spiegano il fenomeno come il risultato di un accumulo di fattori durante la crisi di Covid-19, dall’altro, invece, coloro che spiegano il fenomeno delle dimissioni come la ricerca di un miglioramento futuro. Una spiegazione che rientra nell’alveo della prima linea interpretativa è quella del cosiddetto burn-out, ovvero una situazione di stress persistente, esaurimento fisico ed emotivo, sensazione di perdita di significato del proprio operato e ridotta produttività.

Da questo punto di vista, i dati citati poco fa sull’aumento delle dimissioni nel settore sanitario possono far pensare a medici e infermieri esausti dopo mesi professionalmente assai difficili. Per quanto riguarda invece la linea interpretativa «prospettiva», negli Stati Uniti, l’aumento delle dimissioni è stato spiegato su molti giornali con la volontà di cambiare vita a seguito di un momento di riflessione offerto dalla fase di pandemia. I lavoratori sembrerebbero voler provare a uscire dalla retorica del workism, che prevede una vita di sacrifici in funzione del lavoro.

Questa ipotesi sembra essere confermata da recenti studi, come quello svolto dalla piattaforma di incontro tra domanda e offerta di lavoro Indeed, che mostra come gli americani siano sempre più interessati a professioni creative, che offrano stipendi alti e maggiore flessibilità, e sempre meno propensi a cercare un lavoro ripetitivo, a basso valore aggiunto e in presenza.

Il fenomeno delle dimissioni è ancora più interessante se confrontato con un’altra tendenza che si sta manifestando contemporaneamente nel mercato del lavoro, specialmente statunitense (ma l’aneddotica ce ne parla anche in Italia), ovvero la generale carenza di personale registrata negli ultimi mesi. Una spiegazione per conciliare questi due fenomeni potrebbe derivare dal fatto che i lavoratori sono diventati più selettivi e sono disposti a rifiutare maggiori offerte di lavoro (magari sostenuti in questo dalla liquidità accantonata durante la crisi). Oppure, possiamo immaginare che l’aumento delle dimissioni e la carenza di personale interessino due platee di lavoratori tra loro diverse, che stanno affrontando dinamiche diverse nel mercato del lavoro. I due fenomeni sarebbero quindi paralleli, più che complementari.

Per quanto riguarda l’Italia, l’ondata di dimissioni è ancora un fenomeno piuttosto recente: la crescita si è registrata a partire dal secondo trimestre di quest’anno, mentre era già in atto a metà del 2020 negli Stati Uniti. Per questo motivo, non è ancora possibile capire in maniera chiara quali siano le ragioni dietro questo aumento, ma è possibile fare alcune ipotesi in linea con le due chiavi interpretative menzionate sopra: la crescita delle dimissioni in questi mesi potrebbe essere solamente il risultato di un accumulo di mancate dimissioni durante la pandemia, quando la maggior parte dei lavoratori non ha voluto rischiare lasciando il proprio posto. In questo caso, si tratterebbe di un fenomeno temporaneo che verrebbe presto riassorbito.

Oppure, potrebbero essere il risultato di aziende andate in crisi, che, invece che licenziare, trovano un accordo consensuale con il lavoratore per accompagnarne la dimissione. Un’altra possibilità è che il mercato del lavoro si stia riprendendo e la presenza di nuove opportunità stia spingendo molte persone a cambiare occupazione, consapevoli che sarà facile trovare un nuovo impiego, magari in settori a maggiore crescita (i dati ci segnalano spostamenti di lavoratori verso i settori industriali non leggeri).

I dati sulla crescita sembrano indicare un’economia che si muove, ma allo stesso tempo va ricordato che situazione occupazionale non si sta dimostrando altrettanto rapida, per quanto emerge dai più recenti dati Istat. Anche le posizioni vacanti sul mercato del lavoro, pur avendo recuperato dopo le fasi più acute della pandemia, non sembrano essere più numerose del solito, fatta eccezione per le professioni scientifiche e tecniche.

I prossimi mesi saranno fondamentali per comprendere meglio sia le cause sia le conseguenze dell’ondata di dimissioni in Italia. Ciò è importante non solo per gli studiosi e gli osservatori delle dinamiche del mercato del lavoro, ma anche per le istituzioni pubbliche e per i politici. A seconda infatti della natura del fenomeno in atto, occorre mettere in campo le politiche pubbliche più opportune per accompagnare questa transizione, sostenendo processi di ricollocamento in grado di accrescere la produttività del paese e il benessere dei lavoratori.

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