La finta nazionalizzazione di Autostrade per l’Italia – con cui il governo Conte II prima e il governo Draghi poi (in perfetta sintonia e continuità) hanno trasferito il controllo e il diritto di spolpare la concessionaria autostradale dalla famiglia Benetton ai fondi stranieri Blackstone e Macquarie – è stata condotta in modo corale. I capi dei due governi, Giuseppe Conte e Mario Draghi, l’hanno benedetta e approvata formalmente. I ministri delle Infrastrutture (Paola De Micheli prima, Enrico Giovannini poi) e dell’Economia (Roberto Gualtieri prima, Daniele Franco poi) l’hanno orchestrata.

I superburocrati, sempre gli stessi nei due governi, l’hanno eseguita: il capo di gabinetto delle Infrastrutture Alberto Stancanelli, il capo di gabinetto dell’Economia Giuseppe Chiné, il direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera e il direttore generale della vigilanza sulle autostrade Felice Morisco hanno sepolto l’operazione sotto una montagna di documenti scritti nella lingua degli addetti ai lavori. Pochissimi tra i mille deputati e senatori hanno capito che cosa stava accadendo. Però i documenti sono lì e basta leggerli. Se non si entra nel dettaglio di cose complicate e noiose non si capisce come è gestito il denaro pubblico.

L’8 marzo 2022 il capo di gabinetto del ministero dell’Economia Giuseppe Chinè scrive al suo omologo delle Infrastrutture Stancanelli, e gli trasmette una nota del direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera contenente «gli elementi di risposta» da dare alla Corte dei conti. La quale non ha potuto esercitare la sua funzione di controllo sull’accordo transattivo con cui il 14 ottobre 2021 è stata chiusa la procedura di revoca della concessione autostradale di Aspi. C’è «carenza documentale», dice la Corte.

Una lunga catena di fatti

Teniamo a mente la catena dei fatti precedenti. Il 14 agosto 2018 crolla il ponte Morandi e muoiono 43 persone. Due giorni dopo il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli apre il procedimento amministrativo di revoca della concessione per «grave inadempimento».

Tre anni dopo si firma la transazione in cui c’è scritto che il grave inadempimento c’è stato ma, contrariamente alla legge che prevede come unica sanzione la cessazione anticipata della concessione, si indica come “pena” per Aspi solo una serie di futuri «sacrifici».

La stranezza è che la validità della transazione è subordinata alla vendita di Aspi alla Cassa depositi e prestiti (lo stato) e ai due soci che Cdp si è scelta discrezionalmente, il fondo americano Blackstone e il fondo australiano Macquarie. Cosicché i “sacrifici” di Aspi se li compra il nuovo azionista pubblico, liberando Atlantia dei Benetton che se la cava vendendo a prezzo più che pieno la sua gallina dalle uova d’oro. A questo punto la Corte dei conti chiede chiarimenti: siete sicuri che risolvere la procedura di revoca con l’acquisto di Aspi sia conveniente per lo stato?

Si inserisce qui la lettera di Chinè con gli «elementi di risposta» di Rivera. Il direttore generale del Tesoro scrive che «la compravendita di Aspi da parte del Consorzio prevede il pagamento del prezzo di acquisto dell’88,06 per cento di Aspi da parte di un soggetto interamente privato, senza alcun esborso da parte dello stato».

Infatti Rivera spiega che, contrariamente a quello che pensano eletti ed elettori comuni, «Cdp Equity è una società per azioni, controllata al 100 per cento da Cdp S.p.A., che (i) svolge attività imprenditoriale, nel rispetto del “principio dell’investitore privato operante in un’economia di mercato”, e (ii) non rientra nel perimetro della pubblica amministrazione a fini Eurostat, come del resto non vi rientra la capogruppo Cdp S.p.A».

Quindi Cdp è un soggetto privato di proprietà di una privata cittadina che si chiama Repubblica italiana. Ma qui viene il bello: «Peraltro, anche laddove, in via meramente ipotetica, si volesse considerare Cdp Equity come un soggetto pubblico – qualifica del tutto opinabile e infondata – la “parte pubblica” si farebbe carico solo del 51 per cento del prezzo di compravendita, posto che la partecipazione di Cdp Equity nel Consorzio è del 51 per cento e, attraverso tale quota, assumerebbe il controllo dell’88,06 per cento del capitale di Aspi».

Cdp non controlla niente

I casi sono due. O il direttore generale del Tesoro ha scritto un’informazione falsa destinata alla Corte dei conti, oppure qualcuno ha mentito a lui. Non è vero che il gruppo Cdp, attraverso Cdp Equity, sta acquistando, con il 51 per cento delle azioni, il controllo di Aspi. Quando Rivera scrive questa frase sono stati già da tempo definiti i cosiddetti patti parasociali che concedono a Blackstone e Macquarie il controllo di fatto della concessionaria autostradale e il diritto di pretendere la spremitura di ogni euro di utile attraverso la distribuzione di dividendi, ordinari e straordinari. Gli sarebbe bastato leggere qualche riga dei “patti” per capirlo.

Gli azionisti della holding Hra, che ha comprato l’88,06 per cento delle azioni Aspi, sono Cdp Equity (51 per cento), fondo Blackstone (24,5 per cento), fondo Macquarie, (24,5 per cento). Il consiglio di amministrazione di Aspi è formato da 14 membri, sei dei quali espressi da Cdp Equity, tre da Blackstone, tre da Macquarie, due dai due fondi che posseggono la differenza tra 88,06 per cento e 100 per cento delle azioni. Quindi Cdp Equity va in consiglio d’amministrazione con sei membri su 14: come fa a comandare? Non solo.

Si legge nei patti parasociali, a proposito del consiglio d’amministrazione di Aspi: «Quanto alle delibere consiliari aventi a oggetto particolari materie indicate nel patto parasociale (le “materie riservate consiliari Aspi”), tali delibere saranno validamente adottate nel caso in cui si registri il voto favorevole della maggioranza degli amministratori presenti, a condizione che il predetto quorum includa il voto favorevole di almeno n. 1 (uno) amministratore (non indipendente) designato da Hra dietro istruzioni ricevute da ogni categoria di azioni».

Tradotto: il cda di Aspi non può deliberare niente senza il voto favorevole sia di Blackstone sia di Macquarie. Tanto che è previsto e normato anche l’incidente, quando anche uno solo dei due fondi fa scattare il suo diritto di veto: «Nel caso in cui il Consiglio di amministrazione di Aspi non riesca a deliberare in merito a una materia riservata consiliare Aspi per almeno n. 2 (due) sedute consecutive (lo “stallo Aspi”)», scatta la procedura di stallo, cioè il tentativo di mettersi d’accordo. Alla fine, «nel caso in cui lo stallo non sia risolto entro 30 (trenta) giorni la materia si intenderà respinta».

Potere di veto su tutto

E quali sono le “materie riservate consiliari” per le quali Cdp, per decidere una cosa qualsiasi, deve chiedere il permesso ai soci di minoranza? Tutte le materie che lo statuto Aspi riserva al Consiglio d’amministrazione, cioè non delegabili ai manager. Con patti parasociali così comandano i fondi con il 49 per cento delle azioni.

A quanto si dice in Cdp, questi patti parasociali sono stati contrattati dall’ex amministratore delegato di Cdp Equity Pierpaolo Di Stefano e dal suo braccio destro Gianluca Ricci, da poco passato al fondo Macquarie. La firma finale è stata fatta il 3 maggio scorso, ma il documento era pronto da più di un anno. A quanto pare nessuno, né a palazzo Chigi, né al ministero dell’Economia, né al ministero delle Infrastrutture né alla Cassa depositi e prestiti si è accorto di niente. Oppure erano tutti d’accordo.

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