Senza i fondi di Next Generation Eu torneremo ai livelli di ricchezza del 2019 solo alla fine del 2022 e lo faremo solo noi italiani e gli spagnoli, mentre gli altri paesi avranno un ritmo di ripresa più veloce. Le previsioni presentate ieri dalla Commissione europea sull’andamento economico dei paesi dell’Unione mostrano ancora una volta il rischio di divergenza tra le economie del continente. Per l’Italia nel 2021 è prevista una crescita del 3,4 per cento: quest’anno quindi dovremmo crescere circa come la Germania che tuttavia ha avuto una recessione più contenuta della nostra, e un po’ meno della media europea al 3,7 per cento. Per Francia e Spagna, per esempio, è previsto un aumento del Pil rispettivamente del 5,5 e del 5,6 per cento sull’anno passato.

Indietro uno su quattro

Il problema, però, è quanto riusciremo a riprenderci nel medio periodo e con che ritmo di crescita. La Germania tornerà ai livelli del 2019 in termini di Pil reale già alla fine del 2021. Per quel tempo l’Irlanda, il paese che dovrebbe mostrare la crescita relativa maggiore, avrà già segnato un più quattro per cento sul 2019. In media l’Unione europea compenserà le perdite dovute alla pandemia nel secondo trimestre del 2022, insomma nell’estate del prossimo anno. Ma «un paese europeo su quattro ci metterà di più», ha spiegato ieri il commissario europeo agli affari economici, Paolo Gentiloni. Del gruppo fanno parte Olanda, Austria, Belgio, Portogallo, ma l’Italia e la Spagna impiegheranno più tempo di tutti, tornando ai livelli pre crisi appunto solo tra due anni.

La prospettiva è fosca per un paese che ha alle spalle un ventennio di crescita asfittica – il Pil pro capite del 2018 era uguale a quello di diciotto anni prima, anno 2000 quando ci lambiccavamo non sul sostegno a Draghi, allora nemmeno arrivato alla poltrona di governatore di Banca d’Italia, ma al secondo governo Amato sostenuto dal patto Segni. In mezzo rischiano di passare due generazioni. Ma gli squilibri del mercato unico sono un problema anche dell’Europa.

Gentiloni ieri ha ricordato che la crisi rischia di lasciare «ferite profonde», sociali ed economiche. Il numero di bancarotte potrebbe essere maggiore delle attese, come i posti di lavoro persi, anche a causa di cambiamenti strutturali. E a livello di disuguaglianze protrebbero aumentare ancora le differenze di genere e le divergenze tra paesi che rischiano di «autoalimentarsi».

Queste previsioni conteggiano l’impatto dei fondi europei per la ripresa solo per le misure «annunciate con credibilità e con specificità nei bilanci nazionali». Dei piani di ripresa e resilienza quindi non c’è quasi nulla, ma questo rende queste stime ancora più utili: un termometro per valutare quanto 209 miliardi di euro potranno cambiare le cose e se saranno ben investiti. «Gli stati che hanno un Pil pro-capite sotto la media Ue avranno la spinta più forte» dall’impiego dei fondi, ha detto ottimista Gentiloni: «Considerando uno stimolo di sei anni, il livello del Pil 2021-2026 potrebbe essere più alto del 3 per cento – 3,5 per cento rispetto a uno scenario senza Recovery». Un documento del governo francese pubblicato di recente definisce i piani di ripresa «una opportunità per una riduzione coordinata degli squilibri della zona euro». Se fosse applicato con la massima efficienza per l’Italia riuscirebbe solo a ridurre, ma non a colmare, la differenza con la media.

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