I riti della consultazione presidenziale per l’individuazione di una nuova maggioranza parlamentare in grado di offrire al nostro Paese un governo hanno concluso il primo mese del 2021. Nel mentre la sceneggiatura dell’ennesima crisi di governo prosegue, dal cuore della società emergono alcuni segnali cui è utile prestare attenzione.

Oltre il 70 per cento degli italiani afferma di avvertire la presenza di una forte tensione sociale nel Paese. Ad avvertire maggiormente la crescente inquietudine delle persone sono innanzitutto le donne (78%), i giovani under 24 anni (80%) e i trentenni (81%). A percepire l’acuirsi delle forme di tensione sono anche le persone che si collocano nel ceto medio basso (78 %), ovvero, quanti hanno subito, in questi anni e in particolar modo a causa della pandemia, un peggioramento della propria condizione economica e del proprio posizionamento nella scala sociale.

Le rivolte sociali

Lo scrittore e filosofo francese, Albert Camus, nel suo libro «L’uomo in rivolta» (scritto esattamente settant’anni fa nel 1951), sottolineava come lo sviluppo di rivolte rappresenti «uno sforzo singolo o collettivo per ribellarsi a uno stato di cose ingiusto, iniquo». In questi anni abbiamo assistito a molteplici espressioni di protesta. I gilet gialli francesi sono solo l’ultimo episodio in termini di tempo.

Nel nostro Paese è sufficiente tornare indietro a non molti anni fa, all’inverno tra il 2012 e il 2013, per imbattersi nella protesta dei cosiddetti «Forconi». Un movimento che, partendo dalla Sicilia, è stato all’origine di serrate, scioperi a oltranza e blocchi stradali. Le braci calde della spinta alla rivolta, pur sopite (ma mai spente) in questi anni, sembrano in via di surriscaldamento. Per il 51 per cento degli italiani è molto o abbastanza probabile che nei prossimi periodi si sviluppino, nel nostro Paese, nuove forme di protesta «contro i ricchi e i privilegiati». Una sensazione che è particolarmente avvertita da quanti vivono in Sicilia e Sardegna (54%) e dai giovani under 24 anni (56%).

A conferma delle spinte «barricadere», un terzo dell’opinione pubblica è attratta da pulsioni e da un agire politico caratterizzato da posizioni radicali e nette, da gesti eclatanti di ribellione. Il 33 per cento degli italiani, infatti, ritiene necessario «fare ricorso alle barricate per cambiare realmente le cose nel nostro Paese». Di questa opinione sono, soprattutto, gli adulti, le persone che fanno parte della generazione dei baby boomers, ovvero i nati tra il 1946 e il 1964 (37%) e quanti si auto-collocano tra i ceti popolari (43%). Nel confronto di genere, gli uomini appaiono molto più rabbiosi e barricaderi delle donne (37% contro 30%), mentre nella dimensione geografica, le pulsioni ribelliste sono più accese nel Centro Italia (36%) e nel Sud (37%).

Spinta riformista o spinta rivoluzionaria

Un ultimo set di dati completa il quadro delle pulsioni e delle tensioni sociali presenti nel Paese. Il confronto tra quanti propendono per la ricerca di soluzioni riformatrici e quanti preferiscono scelte rivoluzionarie, in grado di «far saltare il banco», è un pendolo costante delle nostre società, che ha costellato la storia del Novecento. Ancor oggi questo pendolo continua ad oscillare, con una minoranza consistente del Paese (il 26%) che propende per soluzioni rivoluzionarie e radicali. Uno stato d’animo che alberga, innanzitutto, tra i giovani under 24 anni (31%) e tra i ceti bassi (37%).

L’effetto del Covid-19

L’incedere della pandemia è piombato su un Paese provato dalle diverse crisi che si sono susseguite negli anni e rischia di innescare nuove e perniciose tensioni sociali. A causa del Covid-19, oggi possiamo registrare, sotto la cenere, la presenza di molteplici stati di conflitto. Incontriamo, ad esempio, la collera del ceto medio-basso colpito dal declassamento sociale e il senso di impotenza, di ampi strati della popolazione, di fronte agli effetti prodotti dal coronavirus sull’esistenza quotidiana.

Sul mood sociale incidono, inoltre, la sensazione di stallo in cui versano molti settori produttivi; la spinta rabbiosa che dilaga prevalentemente nei segmenti commerciali, artigianali e professionali a causa delle chiusure imposte dalla pandemia; il senso opprimente di un futuro negato, vissuto perlopiù da giovani e donne. Chiudono il quadro dei molteplici stati di conflitto la delusione dilagante per un paese e una classe politica cui manca lungimiranza e progettualità, nonché il riemergere di alcuni istinti predatori nelle periferie urbane.

Il quadro attuale, già caratterizzato dall’incrociarsi e sommarsi dei diversi stati di conflitto segnalati, potrebbe peggiorare ulteriormente se, al termine del divieto di licenziamento previsto dalla Legge di bilancio 2021, dovesse innescarsi un processo non governato di espulsione dal lavoro di quote consistenti di lavoratori. Una eventualità che, senza una preventiva strategia di accompagnamento-gestione dell’impatto (con nuove forme di calmierazione, nonché con rinnovati incentivi per l’assunzione delle persone espulse dal processo produttivo), potrebbe diventare un detonatore sociale rovinoso, in grado di mettere a rischio, per lungo tempo, la pace sociale nel nostro Paese.

 

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