Nell’ultimo mese, i mercati si sono concentrati spasmodicamente sull’ipotesi di un default americano. Dichiara default il debitore che non ha più le risorse per onorare i propri impegni: non sarebbe stato questo il caso del Tesoro americano, che può sempre emettere debito in dollari, visto il ruolo della moneta come riserva internazionale. Il rischio che il governo non fosse in grado di pagare interessi e stipendi dipendeva da una norma che conferisce al Congresso il potere di fissare un tetto al debito che il Tesoro può emettere; un potere che viene usato come arma politica quando, come ora, il partito del presidente non ha la maggioranza del Congresso. Poiché un default non avrebbe giovato a nessuno, era molto probabile che all’ultimo minuto si sarebbe l’accordo per evitarlo. E, infatti, è puntualmente successo, giovedì scorso. La soluzione era scontata, ma non lo sono le conseguenze. Nel prossimo futuro il mercato dovrà assorbire una valanga di emissioni di titoli di stato che il Tesoro non ha potuto emettere, per via del possibile default, e che avranno effetti imprevedibili sulla curva dei tassi: un’incertezza in più per un mercato già alle prese con l’ipotesi di un aumento dei tassi nella prossima riunione della Fed, a giugno. L’accordo per evitare il default prevede inoltre una riduzione della spesa pubblica nei prossimi due anni: anche se si stima che sarà inferiore al punto percentuale, potrebbe aggravare una recessione che molti considerano probabile nel prossimo futuro.

Il vero fallimento del Pnrr

Non passa giorno che non si parli di Pnrr: lo scontro tra Governo e Corte dei Conti; i ritardi nella spesa dei fondi; il negoziato e gli attriti con la Commissione per riallocare i fondi e allungare le scadenze; i reiterati ultimatum della Commissione all’Italia; lo scaricabarile delle responsabilità (attribuite di volta in volta all’impostazione del Piano e alle previsioni ottimistiche del Governo Draghi; all’incapacità degli enti locali, o dei funzionari del Mef, ai quali è stata sottratta la gestione dei fondi a favore di palazzo Chigi; a lacci e lacciuoli della burocrazia).

In tutto questo, si dimentica che il Pnrr è parte del Next Generation Eu, il primo programma di spesa pubblica deciso a livello Comunitario e finanziato con la mutualizzazione del debito: i famosi eurobond invocati per decenni. Le polemiche, prettamente italiane, sull’utilizzo dei fondi del Pnrr rischiano però di fornire valide argomentazioni ai tanti detrattori degli eurobond e della politica fiscale comune. C’è il rischio che il Next Generation Eu non sia solo il primo, ma anche l’ultimo programma fiscale comune. Più che un rischio, una certezza, a giudicare dalla reazione dei mercati. La ratio della mutualizzazione del debito è quella di sfruttare la garanzia comune degli Stati membri per ridurre il costo del debito per la maggior parte degli emittenti. Eppure, oggi il rendimento del bond emesso dalla Commissione con scadenza 2032 è superiore a quello dei titoli di stato di pari scadenza emessi da Germania, Olanda, Belgio, Austria, Irlanda, Francia, e di poco inferiore a quelli della Spagna; solo Italia e Gracia ne beneficiano veramente. L’ondata di solidarietà provocata dalla pandemia ha fatto sì che i contribuenti europei accettassero di garantire il debito italiano; ma dubito fortemente che siano ancora disposti a farlo, dopo aver visto l’incapacità, approssimazione e polemiche strumentali della politica italiana.

Lotta all’inflazione

A maggio, nell’Eurozona l’inflazione è scesa dal picco di 11,6 per cento di ottobre al 6,3. Una dinamica comune ai paesi dell’Unione Monetaria, ma con notevoli differenze di valore assoluto: 6,3 in Germania; 6 in Francia; 2,9 in Spagna; e un preoccupante 8,1 in Italia. Negli Stati Uniti la crescita dei prezzi al consumo è scesa al 5 per cento, dal picco di 8,9. La dinamica dei prezzi è dunque in discesa ovunque, anche siamo ben lontani dall’obiettivo del 2 per cento. La politica monetaria nell’area euro è unica ma c’è una grande divergenza tra i livelli dell’inflazione dei vari paesi (più di 5 punti percentuali tra Italia e Spagna) è segno che le cause del caro prezzi sono differenti, e lo dovrebbero essere anche i rimedi. L’inflazione in Germania è superiore a quella americana, e lo sono anche le aspettative implicite nei titoli indicizzati, per la prima volta in 15 anni. La crisi energetica non c’entra visto che i prezzi delle materie prima sono crollati al di sotto dei livelli pre-Covid.

Il rapido aumento dei tassi di Fed e Bce sta producendo i suoi effetti ma i tempi con cui agisce la politica monetaria sono lunghi, incerti e variabili, e nessuno sa se quanto fatto basti a riportare l’inflazione al 2 per cento. C’è dunque il rischio che le banche centrali per ricostruire una credibilità incrinata dall’imprevista impennata dell’inflazione (specie la Bce, per molti erede della Bundesbank), reagiscano con ulteriori rialzi senza aspettare che si compia l’effetto degli aumenti passati; aumentando così la probabilità di una recessione. Le decisioni di Fed e Bce nelle riunioni giugno assumeranno quindi una grande rilevanza.

C’è poi il dilemma di cosa fare quando l’inflazione arriverà intorno al 4 per cento. A quel punto, un’ulteriore stretta con l’economia probabilmente fragile, se non in recessione, e in un anno di elezioni per il Parlamento Europeo e per la Presidenza americana, sarebbe una decisione politicamente ardua. Dopo l’estate si potrà valutare la probabilità che la crescita dei prezzi alla fine si assesti stabilmente sopra al 2: secondo me, sarà molto elevata.

La vendita di Ita

Il contribuente italiano dovrebbe brindare alla notizia della vendita di Ita (ex Alitalia) a Lufthansa: finalmente si è liberato di un fardello insopportabile. Perché i tedeschi fossero disponibili ad assumerne il controllo della gestione (pagando 325 milioni per il 40 per cento), il Tesoro ha dovuto sborsare altri 250 milioni come dote, segno che Ita era di fatto fallita e Lufthansa era l’ultima spiaggia prima della liquidazione. Né c’erano alternative: la strada del consolidamento nei cieli europei è obbligata, ed esclusa IAG che è inglese (e con Iberia compete con l’hub di Madrid), e Air France che deve badare ai problemi suoi, la scelta ovvia era Lufthansa perché ha i conti in ordine e ha già dato prova di ristrutturare e rilanciare le linee aeree di Svizzera, Belgio e Austria. Incomprensibile la scelta del Governo Draghi di preferire un fondo di private equity americano.

Trattandosi di Alitalia però, non è finita finché non è finita: i tedeschi hanno infatti il controllo gestionale ma hanno solo acquisito, con un esborso contenuto, un’opzione a salire dal 40 al 90 per cento. Comprensibile che Lufthansa preferisca vedere il vero stato di salute di Ita prima di pagare per la maggioranza del capitale; e che il governo Italiano abbia temuto per le critiche di “svendere” Ita (anche se ridicole visto lo stato fallimentare della compagnia). Ma rimane il dubbio che con il 60 per cento lo Stato possa comunque interferire, o creare un ambiente ostile, alla gestione tedesca, se questa diventa un problema politico per il governo; e che Lufthansa, avendo solo il 40 per cento possa decidere che rilanciare Alitalia è una missione impossibile e preferisca limitare le perdite ed andarsene. Meglio rimettere il prosecco in frigorifero.

La locomotiva cinese rotta

Con la fine delle lunghe restrizioni imposte dal Covid, ci si aspettava che la Cina riprendesse il ruolo di locomotiva del mondo. Ha quindi destato sorpresa che l’indice del settore manifatturiero segni recessione. Il rallentamento mondiale non c’entra, visto che le esportazioni continuano a crescere. Anche l’indice dei servizi è in discesa, pur rimanendo a un livello coerente con l’espansione. A questo si aggiunge il perdurare della crisi immobiliare, e l’impossibilità di sostenere l’economia con una forte espansione fiscale (visto che il debito pubblico ha raggiunto il 90 per cento del Pil, anche senza includere le garanzie al sistema bancario e agli enti locali) o monetaria (per il rischio di crisi valutaria e fuga dei capitali). L’obiettivo ufficiale di crescita al 5 per cento non è dunque credibile e il problema sembra essere strutturale.

La crisi immobiliare e la debolezza del sistema bancario, in assenza di soluzioni radicali, rischiano di diventare endemici; il rapido invecchiamento della popolazione accresce l’onere del welfare; la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 20 per cento, segno di scarse opportunità; l’affermazione del primato della politica ha ridotto la dinamicità del settore privato; e il crescente nazionalismo e militarismo scoraggiano gli investimenti esteri. La Cina continuerà a dipendere dall’Occidente per le sue esportazioni, e per noi resterà un grande mercato. Ma il suo peso e il suo ruolo nell’economia globale hanno iniziato la parabola discendente.

 

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