La finta nazionalizzazione di Autostrade per l'Italia (Aspi) è la prima vera grana per il nuovo governo di Giorgia Meloni. L'accelerazione è dovuta all'amministratore delegato di Aspi Roberto Tomasi che giovedì 20 ottobre scorso ha firmato una lettera ultimativa al ministro delle Infrastrutture. Tomasi batte cassa.

Pretende, minacciando azioni legali, l'immediato esborso di 900 milioni e l'altrettanto sollecito aumento delle tariffe autostradali del 3,12 per cento. Tomasi, messo al vertice di Aspi dalla famiglia Benetton, è stato confermato dal governo Draghi dopo che la concessionaria è stata acquistata dalla Cassa depositi e prestiti (Cdp) con i fondi stranieri Blackstone e Macquarie.

La sua lettera, scritta quando al ministero di Porta Pia c'era ancora Enrico Giovannini, farà bella mostra di sé lunedì mattina sulla scrivania del nuovo ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini.

Spinta all’inflazione

Prima di spiegare come e perché Aspi chiede allo stato 900 milioni e una stangata tariffaria che spingerà ulteriormente l'inflazione, è opportuno ricostruire il pasticcio che il governo Draghi lascia in eredità al governo Meloni.

Dovendo punire la concessionaria Aspi per il crollo del ponte Morandi e i 43 morti causati dal crollo stesso, il governo Conte prima ha deciso e il governo Draghi poi ha attuato una soluzione alquanto acrobatica: non è stata revocata la concessione ma la famiglia Benetton, che controllava Aspi attraverso la holding Atlantia, è stata costretta a vendere la sua gallina dalle uova d'oro alla Cdp (in cordata con Blackstone e Macquarie). Si è proclamato che Aspi tornava così sotto il controllo dello stato.

Ma nelle carte riservate dell’operazione la direzione generale del Tesoro informa la Corte dei conti che Cdp è una società privata che persegue per statuto il profitto. Se però si ipotizza che il governo abbia passato Aspi da un privato avido a un altro privato avido e che i patti parasociali tra Cdp e i due fondi stranieri consegnino a questi ultimi il controllo, ecco che Cdp rivendica di esercitare il controllo su Aspi.

Il dilemma di Meloni

Ma a questo punto tutto ciò è irrilevante, perché i casi sono due: o la lettera di Tomasi esprime la posizione dei fondi stranieri, oppure è la Cassa depositi e prestiti a ispirarla, e quindi a rivelarsi più avida dei Benetton.

Sia come sia, adesso tocca a Meloni e Salvini decidere che cosa fare. Il governo Conte e il governo Draghi hanno fatto alle concessionarie autostradali un regalo "inaccettabile", per stare alla definizione data l'estate scorsa in parlamento dal senatore di Fratelli d'Italia (già, il partito di Meloni) Lucio Malan: i ristori Covid per ogni euro di pedaggio non incassato a causa della pandemia.

Mentre per i comuni mortali i ristori Covid scattavano solo se la perdita di fatturato negli anni della pandemia era di almeno un terzo del totale, e avevano dei limiti abbastanza severi, per le autostrade si è deciso il ristoro totale. Nel 2021 i pedaggi incassati da Aspi sono stati del 10 per cento inferiori al 2019 (ultimo anno pre-Covid), e quel 10 per cento sarà completamente ristorato dallo stato, insieme al buco di fatturato del 2020, molto più significativo.

Tomasi è perentorio. Aspi, sostiene, «nonostante reiterati solleciti e la scadenza dei termini previsti dalle norme per la definizione ed il recupero delle somme derivanti dagli effetti economici generati dall’emergenza Covid-19 per le annualità 2020 e 2021, non ha ricevuto alcuna indicazione al riguardo». La missiva elegantemente non parla di soldi, ma il conto è noto: 900 milioni.

E Tomasi passa risolutamente alle minacce: «Se anche all’esito dell’odierno sollecito non fossero assunti i provvedimenti richiesti in virtù di chiari diritti della scrivente (Aspi), si vedrà suo malgrado costretta ad intraprendere tutte le azioni conseguenti, ivi compreso l’accesso a tutti gli atti afferenti alle procedure indicate in narrativa». Il dettaglio dell'accesso agli atti va tradotto: sarebbero chiamate in causa le responsabilità personali dei singoli dirigenti ministeriali.

Il dividendo di cittadinanza

La minaccia vale anche per l'aumento delle tariffe che dovrà scattare il 1 gennaio 2023. Scrive Tomasi: «Il termine per la conclusione del procedimento per l’adozione del provvedimento interministeriale di adeguamento tariffario è scaduto, così come previsto dalle norme, da tempo e la sua mancata assunzione costituisce comportamento illegittimo rispetto agli obblighi di legge e convenzionali, determinando gravi pregiudizi alla scrivente Società concessionaria, con tutte le imprescindibili conseguenze che ne derivano».

A completare il quadro c'è lo sfondo economico. Nel 2021 Aspi, nonostante il Covid, ha fatto 682 milioni di utile netto e, ritenendosi una società che scoppia di salute, lo ha interamente versato agli azionisti (Cdp e fondi stranieri) sotto forma di dividendo. In pratica lo stato con i suoi 900 milioni di ristori Covid, una misura gravosa per lo stato e pensata per non far fallire le aziende, finanzia i dividendi, cioè evita agli azionisti ogni sacrificio per la pandemia. Gli stessi che criticano l'assistenzialismo del reddito di cittadinanza (500 euro al mese a persone che non sanno come mangiare) tutelano il "dividendo di cittadinanza", diritto inalienabile e incomprimibile delle società per azioni e dei loro azionisti.

Non solo. Negli accordi per la vendita di Aspi da Atlantia a Cdp, gli uomini dei Benetton sono riusciti a farsi riconoscere da Cdp il diritto alla «retrocessione del 50 per cento degli eventuali nuovi ristori Covid-19 concessi ad Aspi dalle autorità competenti», fino a un massimo di 264 milioni di euro. Quindi la banca pubblica Cdp sta dando l'assalto alle casse dello stato per conto dei Benetton per fargli avere gli ultimi 264 milioni.

A Meloni e Salvini non resterà probabilmente che prendere atto che non c'è più niente da fare, solo da pagare. Al massimo potranno dire che non sono stati loro.

 

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