Pochi giorni fa abbiamo assistito allo sciopero generale per combattere «una pandemia salariale e sociale», come ha sottolineato il segretario della Cgil, Maurizio Landini. In effetti il quadro sociale del paese è tutt’altro che roseo.

In vetta all’agenda degli italiani non c’è solo il tema della ripresa economica, ma svetta il bisogno di interventi per ridurre le diseguaglianze sociali (89 per cento) e ridimensionare il precariato (88 per cento).

A fronte di un mondo imprenditoriale che a più riprese denuncia la difficoltà di trovare personale da assumere, nell’opinione pubblica si fa avanti una risposta sui motivi di tale problematicità.

Stipendi bassi e contratti a tempo determinato

Per la maggioranza degli italiani all’origine ci sono, innanzitutto, due fattori: i bassi stipendi proposti dalle imprese (68 per cento) e l’offerta, maggioritaria, di contratti a tempo determinato (49 per cento).

Due tare denunciate in primo luogo dalle donne, che puntano il dito contro i bassi salari (71 per cento) e i contratti a termine (51 per cento). La situazione è particolarmente evidente tra i disoccupati e tra quanti sono in cerca della loro prima occupazione.

L’84 per cento (più 16 per cento rispetto al dato medio) denuncia la limitatezza degli stipendi, mentre il 56 per cento (più 7 per cento rispetto al dato medio) sottolinea la tendenza a offrire contratti precari. I dati mostrano differenze sensibili, seppur all’interno di una perniciosa similitudine, sia dal punto di vista delle zone del paese, sia da quello delle dimensioni dei centri urbani.

Le città metropolitane e i grandi centri sono certamente i luoghi che presentano più opportunità occupazionali, ma, al contempo, sono anche le realtà in cui l’offerta di posti è maggiormente di bassa qualità. Il 74 per cento delle persone che vive in un grande centro, contro il 64 per cento di chi abita un centro minore, mette al primo posto il tema dei bassi salari.

Stessa dinamica sul fronte della tipologia contrattuale. Il 55 per cento dei residenti metropolitani sottolinea la tendenza a offrire contratti a precari, contro il 44 per cento di chi vive nei centri medi o minori.

I dati per zone del paese, invece, non smentiscono la tradizione: al centro-sud e nelle isole è maggiormente avvertito il tema degli stipendi ridotti (con la punta del 79 per cento in Sicilia e Sardegna) e dei contratti a tempo determinato (52 per cento nelle isole).

Per far fronte a queste dinamiche gli italiani mostrano un orientamento abbastanza chiaro e chiedono al governo (e a tutte le forze politiche parlamentari) interventi volti a: incentivare il ritorno delle produzioni in Italia, con interventi verso le imprese che hanno delocalizzato (46 per cento); definire una soglia salariale minima, per evitare forme di dumping sociale e salariale (40 per cento); disincentivare i contratti a termine (31 per cento) e, infine, offrire nuove forme di sostegno al passaggio da lavoro a lavoro (23 per cento).

Rischio bomba sociale 

In una situazione come quella attuale, con rincari delle bollette, aumenti dei prodotti di prima necessità e generale spinta inflattiva, il quadro sociale del paese rischia di diventare una bomba a orologeria, con evidenti rischi sulla stabilità e, soprattutto, sulla ripresa economica.

La precarizzazione e i bassi stipendi sono un macigno sulla strada per il futuro. Nel corso degli ultimi decenni sono passati dall’essere una fase di passaggio, più o meno lungo, a una condizione duratura e senza uscite, originando generazioni dall’orizzonte corto, che hanno come unica prospettiva quella dell’incertezza e dell’instabilità.

Un processo di precarizzazione permanente di ampie fasce della società che porta con sé non pochi fenomeni di pauperizzazione e marginalizzazione sociale. Non è un caso che le prime tre aspirazioni presenti nella nostra società siano il bisogno di calma e tranquillità (53 per cento), la ricerca di stabilità lavorativa (43 per cento) e l’aspirazione a maggiori sicurezze (41 per cento).

Un quadro che non può essere affrontato con oboli, pezze, sconticini e mancette fiscali, ma con interventi che sappiano incidere in profondità sulla relazione, oggi squilibrata, tra impresa e qualità del lavoro, tra profitto e diritto a una vita decente, tra crescita ed equità sociale.

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