C'è nel campionato mondiale una grande squadra che non corre per lo scudetto, ma fa da vivaio alle altre, allevando i grandi campioni di domani per poi cederglieli; gratis però. La squadra si chiama Italia Ricerca.

Se fosse un club sportivo, dopo pochi anni di investimenti su campioni che regala agli altri, fallirebbe. Siccome è, invece, la branca, essenziale, di un Paese sovrano, può continuare così, senza che l'indignazione dilaghi; ogni anno, grazie alle imposte e alle tasse d'iscrizione agli atenei, produce i suoi campioni. È un bocchettone aperto da cui esce sempre acqua, pur se la pressione del getto diminuisce pian piano.

Sul Corriere della Sera del 3 Febbraio, Roberto Sitia e Anna Rubartelli han richiamato l'attenzione sui bizzarri criteri con cui Italia Ricerca gestisce i suoi campioni. A Dicembre 2020 lo European Research Council (Erc) ha pubblicato dati significativi sui progetti finanziati. La sostanza è presto detta: nella classifica, le nostre istituzioni stanno nella «media classifica». Esse hanno ottenuto fondi in 17 casi su 327, come Israele (10 milioni di cittadini contro i nostri 60), mentre la Francia ne ha il doppio, 34. Germania e Regno Unito ne hanno 50 ciascuno, ma la Spagna ne ha 22.

Quanto alle discipline, i nostri progetti riguardano per metà le Scienze Umane, per metà Fisica, Matematica e Scienze della vita. Negli altri Paesi citati, sono molto più numerose le ultime. È bene che un Paese con la nostra tradizione abbia grandi risorse nelle Scienze umane, utilissime in ogni campo, ma la ricaduta economica delle scienze «dure» è ben maggiore.

Questi dati generano malinconia per il grande Paese che potremmo essere e non abbiamo la costanza di essere. La malinconia diventa ottimismo quando si passa alla statistica per i soggetti che han vinto. Al primo posto c'è l'Italia, con 47 vincitori, di cui quasi metà, 23, sono vincitrici, contro i 45 della Germania (12 donne).

Vincono le persone, non le istituzioni

Perché siamo indietro come istituzioni ma avanti come persone? Perché le persone, formate a spese nostre, se non trovano qui occasioni all'altezza delle loro aspettative, vanno all'estero a fare ricerca. Sitia e Rubartelli stimano mediamente in 500mila euro il costo per formare chi può vincere un progetto Erc, i campioni del vivaio che esportiamo gratis. Ciò avviene per imprevidenza e per imprevedibilità.

Sulla prima, stranota, non merita indugiare; meno nota e più insidiosa è la mancanza di programmazione di lungo termine. Quando chi fa ricerca si programma la vita, professionale e personale, non s'accontenta del finanziamento di un anno o due, sperando nella benevolenza dei vertici dell'istituzione dove lavora. Serve un orizzonte che consenta di redigere e attuare programmi con un capo e una coda.

Non si può fare come con certi tratti autostradali, di cui usiamo finanziare un primo tratto (per il resto Dominus providebit). Oltre all'imprevedibilità, conta la paura di giudicare il rendimento delle persone, facendo una graduatoria di merito; se invece Caio lavora bene, e Tizia meglio, bisogna puntare su di lei, anche se è più giovane.

I giudizi di valore esigono il faticoso approfondimento del lavoro di chi fa ricerca, causano infinite recriminazioni; vuoi mettere la misura oggettiva dell'anzianità, che fa grado? Meglio scansare le responsabilità, il che aiuta nel piccolo potere accademico; così il Baroncino spesso conta sulla fedeltà, dote suprema dei barboncini che alleva.

Chi fa ricerca preferisce appoggiarsi ad istituti capaci di dare garanzie vere, purtroppo precluse spesso ai nostro istituti e Atenei; per questo su 47 nostri campioncini, solo 17 hanno appoggiato la ricerca ad enti italiani.

Dare a questi giovani spazi, mezzi e tempi certi non è magnanimità, ma astuto calcolo, non spesa, ma investimento. Senza il quale non c'è sviluppo, economico o sociale. Visto che lo respingiamo, lo sviluppo se lo godranno, in vece nostra, i Paesi che ospiteranno i campioncini, senza aver dovuto seminare per raccoglierli.

Siamo un Paese troppo teso a rimirarsi. Qui si vive bene, ma paesaggio, buon cibo e famiglia non esauriscono gli obiettivi di vita dei giovani; a differenza di tanti fra noi, essi sanno che c'è un mondo là fuori.
Pochi come Mario Draghi han chiara l'urgenza di invertire tale scialo, per tornare a investire sul capitale umano. Pare arrivato il tempo della competenza senza arroganza, della determinazione paziente, del coraggio senza iattanza. Dell'Italia migliore, dove uno non vale uno, ma ognuno conta.

Servono risorse per questo investimento di lungo termine? Se il nuovo governo nascerà, troverà tanti miliardi rivedendo drasticamente il progettato «Patrimonio Rilancio», una nuova Iri ma senza Beneduce e Menichella. Potrà anche fermare questo Bateau Ivre da 44 miliardi prima che salpi. Faremmo Bingo: danno cessante e lucro emergente!

 

 

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