Settanta anni dopo il «miracolo italiano», il paese si ritrova ancora una volta coinvolto in un conflitto globale, contro una malattia che ha causato più di due milioni di morti e che ha radicalmente cambiato il modo in cui interagiamo sia a livello personale sia professionale. In questo contesto, la mancanza di innovazione tipica delle imprese italiane ha contribuito a deprimere il fatturato più del dovuto, con conseguenze negative sia per gli imprenditori sia per i lavoratori. La risposta europea è stata ambiziosa: al nostro paese sono stati destinati 222 miliardi di euro tra prestiti e fondo perduto. Se l’obiettivo è far ripartire un paese ingolfato ormai da tempo, l’imponenza degli stanziamenti permette di ambire a una rinascita. Ma le difficoltà sono molte.

Gli effetti della crisi sulle imprese

Le imprese che forniscono servizi (alla persona, come i ristoranti, ma anche ad altre aziende) hanno accusato il rallentamento più grande: secondo l’Istat, agenzie di viaggio, imprese nel campo dell’assistenza sociale, della pubblicità e delle attività di intrattenimento hanno subìto una perdita di fatturato superiore alla media nazionale. Questa non è che la punta dell’iceberg. Un terzo delle imprese ha infatti riscontrato rischi operativi e di sostenibilità per la propria attività. Ma se anche non siamo certo gli unici a soffrire delle ripercussioni della crisi, la peculiare struttura delle imprese italiane ci ha reso particolarmente vulnerabili alle sue conseguenze. In un paese dove le piccole e medie imprese impiegano un terzo degli occupati nel settore privato, generando il 41 per cento del fatturato totale annuo, le proiezioni 2020 stimano un calo del 16 per cento dei ricavi. L’arretratezza digitale delle nostre imprese è un fatto ormai assodato, specchio della generale mancanza di competenze digitali nella popolazione. Il rallentamento dell’attività aziendale nel 2020 deriva non solo da limitazioni governative, ma anche da difficoltà di approvvigionamento legate alla crisi di fornitori e filiera produttiva, alla quale va sommato un incremento dei costi dovuti a misure preventive (sanificazione, rotazione del personale, ecc). L’Istat ha riportato che sei imprese su dieci prevedono perdite di fatturato tra dicembre e febbraio, mentre la metà delle Pmi prevede una diminuzione tra il 10 e il 50 per cento.

In uno scenario di contrazione generale dell’economia, quali sono le imprese che sono riuscite a limitare i danni, sia in termini di riduzione del personale sia di fatturato? Quelle con maggiori competenze digitali. Per quanto la correlazione tra performance e investimento digitale non si scopra certamente grazie al Covid-19, la pandemia ci fornisce ancora una volta la prova di come innovare sia un requisito essenziale per fare business. Confindustria riporta che le aziende digitalizzate hanno avuto negli ultimi tre anni un trend di crescita della forza lavoro superiore alle aziende che non hanno implementato tecnologie digitali. Ma non sono solo le assunzioni a salire: l’Osservatorio innovazione digitale delle pmi ha stimato come le aziende presentatesi all’inizio della pandemia con almeno una parziale digitalizzazione dei processi produttivi abbiano riportato un impatto negativo sull’operatività aziendale minore rispetto a quelle pmi con una completa mancanza di una base tecnologica digitale.

La mancanza di cultura innovativa

La crisi attuale ha obbligato anche gli attori più reazionari, sia nel pubblico sia nel privato, a confrontarsi con l’esigenza di ampliare i canali di distribuzione e di ristrutturare la gestione operativa. Da questo punto di vista, la pandemia ha garantito una decisa accelerazione di trend già esistenti: le pmi che sfruttano l’e-commerce come canale di distribuzione sono cresciute del 50 per cento, diventando un terzo del totale, mentre l’adozione di servizi cloud è passato dal 23 per cento (2018) al 59 per cento. L’e-commerce è tuttavia solamente una delle svariate innovazioni possibili grazie al digitale.

Se da un lato le imprese italiane sono state pronte nell’ammodernare i propri canali di distribuzione in modo da sostenere vendite e ricavi, sono mancati gli investimenti strategici necessari a garantire prospettive di crescita nel lungo periodo. Rispetto al 2018, rimane pressoché invariata la percentuale di imprese che utilizzano big data per ottimizzare i processi produttivi e strategici, mentre diminuiscono la quota di aziende che impiegano esperti Ict (dal 16 per cento al 12.6 per cento) e che hanno svolto corsi di formazione informatica rivolti al personale (dal 16,3 per cento all’11,7 per cento). Questi numeri, giustificabili solo in parte con la precaria situazione finanziaria che ha accomunato moltissime realtà nel corso del 2020, mettono in evidenza uno dei problemi più radicati e tipici del panorama aziendale italiano: la mancanza di una cultura aziendale aperta all’innovazione e la scarsità delle competenze a livello operativo e gestionale, che sommate portano a una generale incapacità nel comprendere le dinamiche innovative in grado di sostenere il business nel lungo periodo.

Le possibili cause di questa situazione sono molteplici: la pandemia ha creato grossi problemi di liquidità, che si vanno a sommare al sempre difficile accesso al credito nel nostro paese. Giorgia Sali, direttore dell’Osservatorio sull’innovazione digitale delle pmi, sottolinea come l’arretratezza e la complessità della pubblica amministrazione abbiano contribuito a creare un ecosistema che non fornisce alcun incentivo alla digitalizzazione. Quando si è riusciti a fornire tali incentivi, la maggior parte delle imprese si sono adattate. A tutto questo si aggiunge infine l’ormai nota mancanza di competenze strategiche su come poter sfruttare in maniera efficace il digitale nel proprio business. «Se da un lato molte aziende non sono nemmeno interessate a innovare, dall’altro paghiamo una mancanza di competenze sul territorio che impedisce di trovare lavoratori con le skills adatte a intraprendere processi di digitalizzazione», aggiunge Sali. «In un paese dove c’è solo l’1,3 per cento di laureati con una specializzazione Ict (contro il 3,8 per cento europeo), tutto questo diventa preoccupante».

Innovare, innovare, innovare

I dati e gli addetti ai lavori sembrano concordare: dobbiamo investire proattivamente in istruzione digitale e creare una strategia trasversale d’innovazione a livello paese, che coinvolga lavoratori, imprenditori e pubbliche amministrazioni. In uno scenario di questo tipo, diventa sempre più difficile giustificare la mancanza di riforme strutturali che permettano di far ripartire la produttività italiana. A ogni tornata elettorale, e a ogni grande sfida globale che il paese ha vissuto negli ultimi 20 anni ci siamo ritrovati al punto di partenza, pieni di progetti, report e piani di crescita il cui unico contributo è stato quello alla crescita delle occasioni mancate. La gravità della situazione attuale deve portare imprese e governo a una presa di consapevolezza, in primis dei propri errori e delle proprie carenze. Entrati appieno negli anni Venti del nuovo secolo, il ritorno alla solita normalità è pura fantasia: davanti a un mercato nazionale e globale dove i confini di province, regioni e stati diventano sempre meno stringenti è evidente come sviluppo digitale sia sinonimo di sopravvivenza per imprese di ogni dimensione.

L’occasione da non sprecare

Se auspichiamo un secondo miracolo economico, le analogie con il passato valgono solo fino a un certo punto. La storia, invece, va in una direzione sola: avanti. Pandemia a parte, compito fondamentale del nuovo governo Draghi sarà quello di ultimare un Recovery plan all’altezza della sfida più importante per il futuro del nostro paese: il rilancio di un’economia sempre più indebitata la cui mancanza di innovazione ha condannato i lavoratori di oggi (senza lavoro) e le generazioni di domani (senza prospettive). E sono proprio le generazioni under 40 che, in maniera drammaticamente ironica, rischiano di pagare il prezzo sempre più alto (vedi debito pubblico) delle promesse incompiute. In questo senso, la guida apolitica di Mario Draghi potrebbe mostrare quel coraggio che i passati governi non hanno avuto. Speriamo, perché il tempo delle occasioni perse è già passato.

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