«La scuola sta soffrendo in maniera ampia, è una situazione che ci sta mettendo a dura prova». Cristina Costarelli ha 50 anni ed è la vicepresidente dell’associazione nazionale prèsidi di Roma e la dirigente del liceo scientifico Newton. Come migliaia di suoi colleghi in tutta Italia, oggi tornerà ad accogliere gran parte dei suoi studenti in presenza. Il decreto riaperture impone il ritorno in presenza di almeno il 70 per cento degli studenti nelle zone gialle, che da oggi coprono gran parte del paese.

Come molti suoi colleghi, anche Costarelli non riuscirà a raggiungere il limite del 100 per cento consentito dal decreto. «Non c’è spazio a sufficienza per rispettare il metro di distanziamento e accogliere tutti gli studenti, cosa che adesso rende impossibile il famigerato 100 per cento». Fin dal suo insediamento, il governo Draghi ha detto che la scuola sarebbe stata una priorità. Ma dopo più di un anno di pandemia, prèsidi, insegnanti, studenti e genitori sono allo stremo.

Un anno senza pause

Le scuole hanno chiuso per la prima volta un anno fa, all’inizio della pandemia di Covid-19. Prima nelle regioni più colpite, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, e poi, a partire dal 5 marzo, in tutto il resto del paese. L’Italia è stata tra i pochissimi paesi in Europa a tenerle chiuse fino al termine dell’anno scolastico. Ma, l’estate non è stata un periodo di pausa per gli insegnanti. Il governo ha dato disposizioni rigide e precise sulla ripresa delle lezioni e questo ha costretto prèsidi e insegnanti a un lavoro straordinario.

«Andiamo avanti da quasi due anni scolastici ininterrottamente, senza aver fatto neanche l’interruzione estiva, perché l’anno scorso abbiamo lavorato anche a Ferragosto per organizzare i rientri», dice Costarelli. Gli investimenti sono arrivati, anche se spesso in ritardo e con difficoltà, come i famosi banchi monoposto del commissario Domenico Arcuri, in molti casi recapitati alle scuole soltanto settimane dopo l’inizio delle lezioni. A settembre, la riapertura è avvenuta in un regime di disciplina quasi militare: con ingressi scaglionati degli studenti, ricreazioni da trascorrere nell’aula e tentativi continui, ma spesso infruttuosi, di evitare gli assembramenti.

I risultati

Ma lo sforzo del personale scolastico e delle famiglie non è servito a evitare i contagi. La pandemia, che aveva già mostrato segnali di ripresa ad agosto, a ottobre è andata fuori controllo. In una rapida serie di provvedimenti, il governo ha prima chiesto alle scuole di adottare flessibilità sulle lezioni in presenza, poi l’obbligo della didattica a distanza al 75 per cento e infine la chiusura totale delle lezioni in presenza per le scuole superiori. Nel mentre, i presidenti di regione adottavano a loro volta ordinanze che alleggerivano o più spesso inasprivano le norme nazionali, creando una situazione di caos imprevedibile per tutti.

Oggi sappiamo che nelle scelte del governo e in particolare delle regioni, non c’era una forte correlazione tra gravità dell’epidemia e numero di giorni trascorsi a casa. Gli studenti del Sud, come ad esempio quelli di Campania e Sicilia, hanno trascorso più tempo in Dad dei loro coetanei di Veneto e Lombardia, dove l’intensità dell’epidemia era ancora più forte. Il risultato è che, nonostante gli sforzi compiuti nell’estate dell’anno scorso e nelle settimane successive, la pandemia ha finito con l’acuire i divari educativi che da decenni dividono il nostro paese.

Scuole sicure?

Il ministero dell’Istruzione aveva promesso di accompagnare gli sforzi compiuti sul territorio per proteggere le scuole con una capillare opera di raccolta dati. I contagi nelle scuole, assicurava l’allora ministra Lucia Azzolina, sarebbero stati monitorati e la situazione sarebbe stata tenuta sotto attento controllo. Ma il compito si è rivelato superiore alle capacità del ministero e i dati raccolti sono stati trattati in maniera opaca. Soltanto un paio di volte, nel corso del mese di ottobre, il ministero ha diffuso i dati sui contagi. Dopo le critiche per la loro infrequenza e incompletezza, il ministero ha cessato ogni pubblicazione. L’elaborazione e diffusione dei dati è stata passata all’Istituto superiore di sanità, che però non è riuscito a fornire un monitoraggio costante della situazione dei focolai scolastici.

Oggi sono soprattutto le aziende regionali a fornire i dati e questo rende molto difficile farsi un’idea dell’andamento complessivo della situazione. Il disastro sui dati dei contagi a scuola ha finito con il nascondere un elemento centrale di questa vicenda: le scuole non sono luoghi sicuri, almeno se con «sicuri» si intende dove il contagio, per qualche ragione, non si diffonde. Come tutti gli spazi al chiuso dove interagiscono grandi gruppi di persone, sono potenziali fonti di focolai.

Numerosi studi lo hanno confermato, anche se non tutti sono concordi su quanto sia facile contagiarsi in classe e sui mezzi pubblici utilizzati per arrivarci. «Le scuole sono sicure per quanto possibile», dice Costarelli. Nella sua scuola al momento ci sono due positivi, il che significa due classi in quarantena, insieme a tutti i 15 docenti che le hanno frequentate nelle ultime 48 ore e questo, dice: «Crea ulteriori disservizi a catena» che «appesantiscono una situazione già pesante».

Riapertura

A partire da dicembre, quando dal picco della seconda ondata i casi sono iniziati a scendere, ha iniziato a farsi sempre più forte la richiesta di riaprire le scuole. A sostenerla, oltre alla ministra Azzolina e all’allora coordinatore del Cts, Agostino Miozzo, che sul tema è entrato in conflitto con alcuni dei suoi colleghi, c’era un fronte trasversale a quasi tutti i partiti della maggioranza, insieme a numerosi opinionisti e diversi grandi giornali. Per un breve momento, a gennaio, la riapertura della scuola è sembrata una priorità quasi unanime. Il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, suggeriva in quei giorni di vaccinare in modo prioritario tutti gli insegnanti, così da facilitare un ritorno in aula. A partire da febbraio, in effetti, una percentuale consistente delle vaccinazioni è stata destinata al personale scolastico, ma il fronte di chi temeva che la scuola non fosse sicura, formato da alcune forze all’interno della maggioranza, dagli esperti del ministero della Salute, con i sindacati di prèsidi e insegnanti in genere altrettanto scettici, le limitazioni alla presenza sono rimaste alte. Il braccio di ferro è proseguito con l’arrivo del governo Draghi che, all’inizio di marzo, ha adottato come uno dei suoi primi atti, una stretta sulle scuole. In quei giorni i contagi erano in aumento. Quando poi a fine mese la curva ha di nuovo iniziato a invertirsi, i rapporti di forza si sono invertiti.

Alla fine del mese, i giornali hanno ripreso uno studio della ricercatrice Sara Gandini che, contraddicendo la maggior parte della letteratura esistente, sosteneva che le scuole fossero sicure. Gandini, insieme ad altri ricercatori dello studio, gestisce una popolare pagina Facebook che sostiene posizioni contrarie al lockdown (frequentata anche da Alberto Gerli, l’imprenditore appassionato di bridge ed epidemiologo dilettante che è stato per breve tempo membro del Cts, prima di dimettersi). Lo studio è stato molto criticato, ma ha contribuito ad alimentare un dibattito che, con i contagi di nuovo in calo, era sempre più favorevole alla riapertura. Arriviamo così al decreto riaperture, con cui il governo ha deciso di stabilire una presenza dal 70 al 100 per cento nelle zone gialle e di almeno il 50 per cento in quelle arancioni. Ha stabilito anche di togliere ai presidenti di regione la possibilità di imporre misure più restrittive. La preside Costarelli affronta il suo primo giorno di zona gialla con relativo ottimismo. Si dice più preoccupata di quello che avviene sui mezzi pubblici che nelle aule, ma assicura che la scuola se chiamata al suo dovere ci sarà. Ma una cosa, dice, è sicura. «Alla scuola e al personale che ci lavora, studenti, insegnanti e dirigenti, si sta chiedendo troppo».

 

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