Le dimensioni della prossima manovra di bilancio, con il suo carico di promesse da mantenere per il governo di Giorgia Meloni, sono appese a un verdetto che arriva da Bruxelles. Per una volta non c’entra nulla la riforma del Patto di stabilità e neppure il Mes, su cui si discute invano ormai da anni. La novità attesa da Roma porta il marchio di Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione europea, chiamato a pronunciarsi sul trattamento contabile dei crediti legati al Superbonus.

In sostanza, se Eurostat correggerà le sue precedenti indicazioni, che risalgono al primo febbraio scorso, il governo potrà tornare a spalmare gli oneri di questa particolare agevolazione edilizia nell’arco di più anni, a mano a mano che i crediti fiscali maturano, cioè vengono utilizzati dal contribuente. Questo non significa che il macigno del Superbonus diventerà di colpo più leggero.

Mina sul debito

Le conseguenze sul debito pubblico resteranno pesanti, ma l’effetto sul deficit verrà suddiviso in un arco di tempo maggiore. Quindi, se Eurostat darà via libera, il governo riuscirebbe ad arginare in qualche modo la valanga che di mese in mese si sta ingrossando e rischia di travolgere gli argini dei conti pubblici.

Secondo i calcoli del ministero dell’Economia, il conto del Superbonus per le casse dello Stato aumenta di 3,5 miliardi ogni mese.

Una corsa che, a quanto pare, nessuno nelle strutture tecniche del Tesoro, a cominciare dalla Ragioneria generale dello Stato, è riuscito a prevedere. Il ministro Giancarlo Giorgetti, che domenica al meeting di Cernobbio ha confessato i suoi “mal di pancia” in vista della resa dei conti della manovra, a febbraio accreditava l’ipotesi che grazie all’intervento del governo l’onda di piena dei crediti sulle ristrutturazioni edilizie sarebbe stata messa sotto controllo.

Roma chiama Bruxelles

A Roma, l’allarme rosso era suonato quando Eurostat aveva messo in chiaro che gli oneri vanno contabilizzati secondo un principio di competenza (cioè negli anni in cui sono stati generati) e non al momento in cui il contribuente li porta all’incasso (principio di cassa).

Ecco allora, che con il decreto varato in gran fretta a metà febbraio sono state bloccate le nuove cessioni e gli sconti in fattura. Una tagliola che ha salvato solo chi avesse comunicato l’inizio dei lavori prima del provvedimento.

Sulla base di questo decreto, il governo si attendeva che Eurostat tornasse sui suoi passi, consentendo di spalmare gli oneri su più anni. Infatti, proprio per effetto dell’intervento governativo di febbraio, i crediti sarebbero tornati a essere “non pagabili”, cioè inesigibili una volta superato il limite della capienza fiscale del contribuente.

In altre parole, visto che non sono più cedibili ciascuno può portare in detrazione crediti solo per un valore che non superi quello delle tasse che deve pagare. Secondo i criteri contabili dettati da Eurostat, la qualifica di “non pagabile” avrebbe dovuto far rientrare il superbonus nella categoria degli oneri da dividere nell’arco di tempo in cui si può far valere l’agevolazione fiscale.

Ciambella di salvataggio

Tutto bene, se non fosse che da Bruxelles non è arrivata la correzione che Roma si aspettava fin dallo scorso maggio. Non è escluso che l’ufficio statistico della Ue si pronunci già nei prossimi giorni, ma per il momento in mancanza di nuove istruzioni il governo non può fare altro che mettere a bilancio tutti i crediti generati quest’anno.

Ed è un problema, visto che gli oneri sono molto superiori al previsto. Entro la fine del 2023 si stima che la spesa supplementare possa arrivare a una trentina di miliardi. Come detto, lo stesso Giorgetti, qualche giorno fa ammesso che il conto finale aumenta al ritmo di 3,5 miliardi al mese.

Nell’immediato potrebbe arrivare la ciambella di salvataggio lanciata da Eurostat, ma questo non risolve certo il problema. I crediti accumulati si andranno comunque a scaricare sul fabbisogno dei prossimi anni, contribuendo all’aumento del debito pubblico. Insomma, comunque la si prenda, il superbonus resta una bomba a orologeria sui conti del Paese.

I crediti accertati per i bonus edilizi, compreso anche il cosiddetto “bonus facciate”, ammontano in totale a 146 miliardi e, a prescindere da quale sarà la loro contabilizzazione, dovranno in qualche modo essere finanziati.

E questo in una fase di mercato in cui di tassi d’interesse sono destinati a calare solo in modo marginale nell’arco dei prossimi mesi, provocando un ulteriore incremento della spesa per interessi. Non solo, sul rapporto tra debito e Pil non potrà non influire il rallentamento della crescita, che dopo il risultato deludente del secondo trimestre dell’anno potrebbe alla fine far segnare un dato abbondantemente inferiore alle previsioni del governo, pari a più 1 per cento nel 2023.

Alibi per il governo

Con la Nadef da pubblicare entro il 27 settembre, il Tesoro non potrà fare a meno di chiarire l’impatto di queste spese impreviste. Intanto però l’insistenza sui costi del Superbonus serve all’esecutivo per crearsi un alibi nel caso fosse costretto a ridimensionare le promesse fatte su pensioni, cuneo fiscale, taglio delle tasse.

Scaricando, va da sé, la responsabilità sui governi che a suo tempo vararono le agevolazioni edilizie senza valutarne la portata esplosiva sui conti.

Un’accusa diretta in primo luogo ai Cinquestelle, che hanno fatto del Superbonus, varato nel 2020 ai tempi dell’esecutivo giallorosso, una delle loro misure bandiera. A Palazzo Chigi, però, nessuno sembra ricordare che per due anni i partiti oggi alla guida del Paese, da Fratelli d’Italia alla Lega a Forza Italia, di fatto avallarono il provvedimento che ora descrivono come una sciagura.

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