Le diseguaglianze non sono solo di reddito: non sono meno importanti quelle collegate al muoversi, cioè alle occasioni di lavoro raggiungibili, e l’accesso a mercati con prezzi più bassi, sia per la casa che per i consumi alimentari e non. Il Pnrr su questo punto fa un errore clamoroso: destina la massima parte delle risorse alle infrastrutture per le lunghe distanze (soprattutto Alta velocità), che fanno molta scena nelle inaugurazioni, ma servono pochissimo a chi si deve muovere tutti i giorni, e in specie alle categorie più deboli.

Per questo nel precedente articolo abbiamo visto la mobilità sulle brevi distanze, che è preponderante sia per quantità che rilevanza sociale. Abbiamo visto qualche alternativa politica che rimane rilevante anche per i trasporti di lunga distanza (ridistribuire il reddito con erogazioni in denaro o in servizi? E in caso si decida per questi ultimi, puntare sulle tariffe o sulle quantità, a parità di costi pubblici?).

Le infrastrutture per la lunga distanza

I trasporti di lunga distanza (cioè fuori dai confini regionali) riguardano la mobilità occasionale, principalmente per motivi turistici, o di affari, o famigliari. I modi di trasporto che servono questi spostamenti sono il treno e l’aereo, e in misura un po' minore le automobili e gli autobus di lunga distanza (e quest’ultimo servizio ha valenze distributive rilevanti, in quanto gli utenti sono in genere di basso reddito, studenti ed immigrati, a causa delle basse tariffe e della lentezza del viaggio).

Il traffico di lunga distanza è certo meno socialmente rilevante, ma sono rilevantissime in termini economici le infrastrutture che lo servono, in modo più o meno “dedicato”: reti ferroviarie (soprattutto l’Alta velocità, con una rete di circa 900 chilometri, ma in corso di estensione) e la rete autostradale (per circa settemila chilometri). Anche gli aeroporti sono infrastrutture di rilievo, ma non paragonabile alle prime due in termini sia di costi che di traffico servito.

Efficienza o equità

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Un primo aspetto da considerare è: chi paga per gli investimenti delle infrastrutture? È un problema di efficienza economica, ma che presenta anche aspetti di equità.

Per l’efficienza, le infrastrutture dovrebbero essere pagate dallo stato (sono ”monopoli naturali”). Gli utenti dovrebbero pagare solo per il loro uso, almeno finché non sono congestionate, altrimenti rimangono meno utilizzate di quanto potrebbero.

Qui emerge innanzitutto un conflitto tra efficienza ed equità: è giusto che tutti i contribuenti paghino per infrastrutture usate solo da una piccola minoranza? Qualche dubbio è legittimo.

Il fatto che gli utenti paghino anche i costi di investimento per le autostrade, ma non per le ferrovie, è non solo inefficiente, ma anche rilevante per quegli utenti a basso reddito che si trovano costretti a usare la macchina (per esempio per andare in vacanza con la famiglia): non dimentichiamo che il 60 per cento delle automobili in Italia supera gli 11 anni di anzianità, e prevalgono modelli molto più economici che nel resto d’Europa. Questi utenti non sono certo gli ultimi in assoluto nella scala dei redditi, ma i penultimi certamente sì (in Italia con 30 milioni di auto, ogni famiglia con almeno un reddito operaio dispone di una automobile).

C’è forse anche un aspetto di equità nel fatto che le tariffe autostradali garantiscano rendite elevate ai concessionari (adesso anche pubblici, con l’acquisto a caro prezzo della società Autostrade da parte di Cassa depositi e prestiti), e che gli utenti hanno già pagato più di una volta molte delle infrastrutture che percorrono.

Costi ambientali e sussidi impliciti

Per i costi ambientali, si ricorda che l’Europa, e il buon senso, prescrivono che si tassi la benzina, cioè si agisca “alla fonte”, come in effetti è ora. Queste tasse poi “internalizzano” i costi ambientali molto più che in altri settori inquinanti (circa 300 euro per tonnellata di CO2 emessa. Si ricorda che altri settori inquinanti sono addirittura sussidiati).

Il più vistoso squilibrio distributivo dei trasporti di lunga distanza è quantificabile, ed è quello dei sussidi impliciti agli utenti dell’Alta velocità ferroviaria (Av), mentre non sono sussidiati quelli degli autobus di lunga distanza. Dei primi sappiamo che appartengono a categorie di reddito medio e medio-alto (da dati francesi), dei secondi, date le basse tariffe e la lunghezza e scomodità dei viaggi, sappiamo appartenere a categorie con reddito molto basso (extracomunitari e studenti).

Il sussidio implicito agli utenti dell’Av risulta dal costo pro capite dell’ammortamento dell’infrastruttura e della quota dei costi di esercizio a carico dello stato, al contrario delle altre infrastrutture a pedaggio. Assumendo valori medi del costo di investimento e di esercizio, del traffico di treni, e dell’occupazione dei treni stessi, si arriva con semplici formule attuariali ad una stima prudenziale del sussidio per passeggero di 0,153 euro al chilometro. Essendo la tariffa media pagata oggi dagli utenti dell’Av dell’ordine di 0,1 euro al chilometro, ne risulta un valore sostanziale: per esempio, sulla tratta principale, la Milano-Roma, una tariffa non sussidiata sarebbe più che doppia di quella attuale. E ancora maggiore se si includessero anche i costi ambientali sia della costruzione dell’infrastruttura che dell’esercizio.

I viaggiatori che prendono i bus di lunga distanza perché non possono permettersi l’Av, come si è detto, non solo non hanno alcun sussidio, ma pagano pro quota anche i costi di infrastruttura con i pedaggi, e buona parte dei costi ambientali con le accise sui carburanti.

Come minimo, occorrerebbe usare criteri simili tra i due modi di trasporto, sussidiando al pari categorie di reddito medio-alto e quelle meno fortunate. O, più concretamente, almeno intervenire per accelerare la transizione dei bus all’elettrico o all’idrogeno, operazione poco onerosa per le casse pubbliche (per veicoli di grandi dimensioni la transizione è più semplice che non per le automobili private), che ridurrebbe i costi di carburante per questi mezzi. Tra l’altro, questa accelerazione servirebbe anche per i mezzi del trasporto pubblico locale.

Il settore aereo

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Per il settore aereo, certamente l’avvento dei vettori low-cost   ha consentito di servire anche categorie a reddito medio-basso. Ma qui, al contrario del modo stradale e ferroviario, le esternalità ambientali non sono internalizzate. In particolare, in base ai dati Ue, le emissioni di gas serra comportano un danno pari a due centesimi di euro per chilometro percorso, ossia   dieci euro per un volo Milano – Roma, che dovrebbe essere incluso nella tariffa. Cioè per motivi ambientali si dovrebbero alzare le tariffe di questo modo di trasporto, anche se non molto, a scapito dei suoi benefici sociali. Tuttavia, dato che si tratta di viaggi in genere meno socialmente rilevanti di quelli di breve distanza, questo aumento sembra un compromesso accettabile tra obiettivi diversi.

In estrema sintesi: per le diseguaglianze legate ai trasporti, meglio concentrare le risorse sulle brevi distanze. Minori ricadute di immagine, ma migliori opportunità per le categorie più deboli.

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