La pandemia sta aggravando i divari di genere. Nell’aprile scorso, in un documento intitolato «L’impatto del Covid-19 sulle donne», il segretario generale delle Nazioni unite aveva segnalato i rischi per la condizione femminile, specie in alcuni ambiti, dall’economia alla salute al lavoro di cura non retribuito, solo per citarne alcuni, e raccomandato ai governi l’adozione di misure tese a ridurre gli effetti negativi per le donne, mettendole «al centro delle economie».

In Italia - dove le diseguaglianze di genere sono molto elevate rispetto alla media Ue - gli ultimi dati Istat attestano, rispetto al secondo trimestre dello scorso anno, che tra le donne è maggiore il calo del tasso di occupazione. Del resto, tra i settori più colpiti dalla pandemia ci sono quelli dove le donne sono più presenti: turismo, ristorazione, moda e commercio al dettaglio.

Le donne motore della crescita

L’obiettivo del 60 per cento di occupazione femminile, fissato dalla strategia di Lisbona, potrebbe creare 15 nuovi posti nel settore dei servizi ogni 100 assunzioni femminili e una crescita del prodotto interno lordo intorno al 7 per cento a produttività invariata.

Per raggiungerlo, bisognerebbe ripartire da quanto emerso nella Quarta conferenza mondiale sulla donna di Pechino nel 1995: oltre a specifiche misure mirate all’equità – le cosiddette “azioni positive” – va adottato il principio di integrazione orizzontale delle pari opportunità o anche gender mainstreaming. Il Consiglio delle Nazioni unite lo ha definito come il «processo attraverso cui sono valutate tutte le implicazioni per le donne e per gli uomini di ogni azione progettata, in tutti i campi e a tutti i livelli», cosicché essi «ne possano trarre gli stessi vantaggi e non si perpetui la disuguaglianza».

In altre parole, siccome le politiche pubbliche non sono neutrali, ma possono incidere in maniera differente su donne e uomini, gli impatti dovrebbero essere preventivamente vagliati secondo criteri di significatività rispetto al sesso. Sin dalla fine degli anni ’90 il principio della «prospettiva di genere» (gender perspective) è stato assunto come impegno formale dalla Commissione europea: per garantire «trasparenza e affidabilità» dell’intervento pubblico in tema di diseguaglianze, un’analisi di impatto di genere (gender impact assessment) dovrebbe essere svolta su tutte le iniziative di regolazione «in maniera attiva e visibile», per verificarne gli effetti sulla uguaglianza di genere.

La valutazione delle politiche pubbliche

La stessa Commissione, nelle raccomandazioni per il semestre europeo 2020, afferma che la ripresa deve «tener conto delle questioni di genere e attenuare l'impatto sproporzionato della crisi sulle donne, che si aggiunge alle disparità esistenti». E il Consiglio europeo, riguardo al nuovo quadro finanziario pluriennale 2021-2027, menziona la promozione di «pari opportunità» e la necessità che «le attività e le azioni dei programmi e degli strumenti pertinenti integrino la prospettiva di genere e contribuiscano alla parità tra donne e uomini». Eppure, il programma Next Generation Eu, attivato per fronteggiare la crisi post Covid-19, è stato elaborato senza una preventiva analisi degli effetti «al femminile».

Ciò è attestato da una valutazione di impatto di genere sul programma commissionato da Alexandra Geese, europarlamentare, alle economiste Azzurra Rinaldi e Elisabeth Klattzer. Le risorse del piano sono destinate a settori con una elevata incidenza di occupazione maschile, quali energia, agricoltura, costruzioni e trasporti. Lo studio suggerisce, tra le altre cose, interventi anche in attività ad alta occupazione femminile, nonché l’uso della valutazione dell’impatto di genere, di dati disaggregati per sesso e del gender budgeting, cioè la stima degli effetti delle politiche di bilancio su uomini e donne, per le proposte di impiego del Recovery and resilience fund avanzate dai Paesi.

L’importanza del tema della «prospettiva di genere» è stata evidenziata pure dal Comitato di esperti guidato da Vittorio Colao che, nel piano per la ripartenza, rileva «il ritardo dell’Italia in tema di gender equality» e la necessità di «includere una prospettiva di uguaglianza in tutti i settori della società». In una scheda dedicata, il Comitato suggerisce di adottare la «valutazione d’impatto di genere» per «integrare nei processi decisionali la piena equità/parità tra uomini e donne» e produrre «una potente leva di cambiamento della cultura» del Paese.

Si terrà conto di queste indicazioni? Nel piano nazionale di riforme per accedere al Recovery fund, il governo ha intitolato un capitolo all’equità di genere e si è impegnato a utilizzare la relativa valutazione di impatto: lo farà in concreto e, se del caso, l’Unione europea interverrà per pretendere l’osservanza dell’impegno assunto?

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