Il lavoro povero in Italia è persistente, chi ha retribuzioni basse che rischiano di farlo scivolare sotto la soglia della povertà tende a continuare ad averle. Il ministro del lavoro, Andrea Orlando, sta preparando il terreno per una legge sul salario minimo.

Ieri ha presentato il rapporto della gruppo di lavoro sul contrasto alla povertà lavorativa: secondo gli indicatori europei, che però non tengono conto di chi lavora meno di sette mesi, già prima della pandemia, nel 2019, era povero più di un lavoratore su dieci, l’11,8 per cento. Ma la percentuale reale, secondo il gruppo di lavoro, è più alta: nel 2017 nel settore privato arrivava vicina a uno su quattro.

Questo esercito di lavoratori poveri o alla soglia della povertà è frutto non solamente del mancato rispetto della contrattazione collettiva, ma anche del numero di ore lavorate, con ricorso a part time e a falso part time, a contratti temporanei e atipici, della situazione famigliare e delle disuguaglianze a livello di ridistribuzione cioè di tutele e prelievi fiscali disuguali.

«A rischio la tenuta sociale del paese»

Le analisi del gruppo di lavoro spiegano che già nel 2017 il 22,2 per cento dei lavoratori erano poveri per redditi netti, ma tra chi lavora a tempo parziale la percentuale si impennava a oltre il 50 per cento. E sempre nel 2017 la percentuale dei lavoratori part time ne privato era arrivata alla percentuale stupefacente del 30 per cento. Elaborazioni più recenti provano che nel commercio i contratti part time sono la metà, nella ristorazione il 60 per cento.

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Sistema fiscale e sussidi aiutano a tamponare la situazione ma per il lavoro dipendente, facendo diminuire il rischio, ma solo per i lavoratori dipendenti, mentre lo aumentano per gli autonomi.

Gli stessi settori che in questi mesi hanno chiesto ripetutamente misure di sostegno per l’enorme crisi portata dal Covid sono quelli in cui si concentrano lavoratori poveri, che però per natura dei loro contratti non sono abbastanza tutelati, nemmeno dai sussidi erogati durante la pandemia.

«La soglia del lavoro povero e le condizioni di precarietà sono in costante crescita mettendo fortemente a rischio la tenuta sociale del Paese», ha detto il ministro, per cui è «urgente porre la questione alle parti sociali, già domani avremo un primo passaggio».

La prima proposta della commissione è quella di garantire minimi salariali adeguati, la direttiva europea sul salario minimo non si applica all’Italia dove il 70 per cento dei lavoratori è coperto da contrattazione collettiva e quindi servirebbe un intervento ad hoc. Tuttavia dagli scambi informali delle ultime settimane, la gincane tra le ragioni della Confindustria che teme il calo di una quota di occupati e di quelle dei sindacati che temono proprio un indebolimento della contrattazione collettiva non è semplice. Per questo i giuristi che hanno contribuito al rapporto hanno suggerito una sperimentazione solo nei settori più critici.

I dati che mancano

Ancora una volta, però, per avere una rappresentazione reale di cosa succede, servirebbe che le banche dati si parlassero. Ad esempio le dichiarazioni contributive non riportano le ore lavorate né l’inquadramento contrattuale del lavoratore. In questo modo capire chi è sottopagato è molto più difficile. Allo stesso modo i dati Inps non includono la dimensione famigliare che invece è fondamentale per capire quanto il lavoratore sia a rischio povertà. La necessità di rafforzare i controlli e gli incroci sui dati non a caso è al secondo posto tra le proposte della commissione. E sarebbe anche la più semplice da attuare.

L’occasione persa

Ci sarebbe poi un terzo intervento che è sfumato. Il rapporto, infatti, proponeva un sostegno unico, da inserire nella delega fiscale, che integrasse il bonus di 80 euro, che tra le altre distorsioni si applica solo oltre una certa soglia di reddito e la disoccupazione parziale che invece scompare oltre una certa soglia. Ma l’occasione è sfumata e il sistema rimane iniquo. 

Il rapporto suggerisce poi di rispolverare le famose buste arancioni e cioè la simulazione per i lavoratori della loro situazione pensionistica futura, ma da realizzare senza previsioni futuristiche ma semplicemente raffrontando le carriere di chi ha condizioni di partenza simili. 

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Servirebbe da incentivo, da affiancare a una campagna di consapevolezza sui contratti. E a incentivi o disincentivi alle aziende con una operazione trasparenza che segnali chi ha retribuzioni corrette o anche chi non le rispetta. Infine servirebbe rivedere l’indicatore europeo proprio perché in casi come quello italiano sottovaluta di molto la percentuale di chi è in condizioni di fragilità.
Anche perché le retribuzioni basse indicano una forte persistenza, si legge nel rapporto: chi entra nel tunnel della sotto retribuzione rischia di restarci a lungo. 

Per combattere il fenomeno servirebbe una strategia integrata che al momento non c’è. Lo scrivono gli stessi esperti: «Le cinque proposte vanno considerate nel loro complesso perché nessuna di essere presa isolatamente appare risolutiva». Una legge sul salario minimo potrebbe avere un impatto positivo sui contratti pirati che continuano a spuntare nel paese e potrebbe mettere un freno all’esternalizzazione continua di lavoratori per pagarli meno, di cui è partecipe anche la pubblica amministrazione, ma su altri fenomeni preoccupanti come il ricorso al part time serve altro. 

 

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