I divari di genere nelle retribuzioni e nell’occupazione sono ancora uno degli scogli al raggiungimento di una parità effettiva tra uomini e donne in Europa e in Italia. L’Italia registra uno dei peggiori tassi di occupazione femminile nell’Ue (48,5 per cento), meglio solo della Grecia e quattordici punti percentuali al di sotto della media europea. Il divario tra i salari orari maschili e femminili si attesta al 14,8 per cento nell’Unione ed è al 5 per cento in Italia, con enormi differenze però tra settore pubblico e privato, dove il divario è pari al 3,8 per cento e al 17 per cento, rispettivamente. La Commissione europea ha presentato il 4 marzo scorso una proposta per una direttiva sulla trasparenza salariale, per assicurare che le donne ricevano compensi equi per il proprio lavoro.

La proposta si incardina in un processo avviato dalle istituzioni europee con l’obiettivo di spronare i parlamenti nazionali a fare di più per contrastare le disuguaglianze di genere nel mercato del lavoro. Gli obiettivi sono tre: stabilire delle misure di trasparenza salariale che possano aiutare le donne e gli uomini in cerca di un impiego, rafforzare il diritto dei lavoratori a conoscere i livelli di reddito dei colleghi che svolgono le stesse mansioni e l’introduzione di obblighi di comunicazione dei dati sul divario retributivo di genere per le imprese con più di 250 dipendenti. Il rafforzamento degli obblighi di reporting vuole incentivare un processo virtuoso, che porti le imprese ad assumere maggiore consapevolezza sulla propria struttura occupazionale e di retribuzione in un’ottica di genere e evidenziare eventuali discriminazioni.

Regno Unito, Danimarca, Svizzera, Francia e Austria sono alcuni tra i paesi che obbligano le imprese a redigere rapporti e comunicare statistiche sul personale maschile e femminile e le relative retribuzioni.

Obblighi per le grandi aziende

In Italia, il Codice delle pari opportunità (decreto legislativo 198 del 2006) obbliga le imprese con più di cento dipendenti a stilare un rapporto almeno biennale sulla situazione del personale maschile e femminile in termini di occupazione e retribuzione, mentre il decreto legislativo 254 del 2016 sulla rendicontazione non finanziaria richiede alle imprese con almeno 500 dipendenti di indicare i risultati attinenti alla gestione non finanziaria, tra cui le misure per la parità di genere. Circola da tempo l’idea di modificare il Codice delle pari opportunità per rendere più vincolanti per le imprese gli obblighi di comunicazione dei dati sulle retribuzioni e sulla distribuzione degli occupati uomini e donne.

Il peso delle imprese

Le imprese contribuiscono al divario retributivo, come mostra per l’Italia un nostro lavoro di ricerca, che quantifica il contributo delle differenze nelle politiche salariali applicate a uomini e donne essere pari al 30 per cento del gender pay gap. Un contributo che è in parte dovuto alla scarsa presenza di donne in imprese che pagano salari più elevati (segregazione orizzontale) e in parte alla difficoltà delle donne a fare carriera o ottenere maggiore reddito di lavoro all’interno delle imprese che le impiegano (segregazione verticale). Gli obblighi di comunicazione possono portare alla luce meccanismi di questo tipo, se essi verteranno non solo sulla pubblicazione di statistiche aggregate (per esempio, il gender pay gap medio), ma anche sulla presenza di donne e uomini in diverse porzioni della distribuzione dei redditi all’interno dell’impresa stessa. Nelle imprese con più dipendenti il gender pay gap tende ad aumentare: sulla base di un campione di dati Inps riferiti al settore privato, il divario retributivo medio di genere è sotto al 5 per cento nelle imprese con meno di 15 dipendenti e al 23 per cento in quelle con più di 500 dipendenti.

Black list

Affinché gli obblighi di comunicazione abbiano reale efficacia, servono meccanismi sanzionatori. Il Regno Unito pubblica l’elenco delle imprese che non hanno ottemperato agli obblighi di reporting e quali azioni sono state adottate in caso di violazione della legge. La leva della trasparenza è quindi usata come incentivo per far rispettare l’obbligo di legge e fornire correttamente i dati.

Il Covid-19 ha imposto un’interruzione nel 2020 alla pubblicazione dei dati e sarà interessante vedere cosa riveleranno quelli del 2021. La pandemia ha anche bloccato la discussione sul tema in Italia, ma è il momento di riprenderla. In questa direzione sembrano andare gli annunci di un piano nazionale per la parità di genere della ministra Elena Bonetti.

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