Alcune misure contro la povertà mirano ad aumentare la partecipazione al mercato del lavoro. L’idea è che per uscire dalla condizione di indigenza sia necessario essere occupati. Tuttavia, questo non è così vero e sempre di più si sente parlare di lavoratori poveri, in inglese working poor, ossia occupati che vivono in famiglie che hanno un reddito complessivo inferiore a quello della soglia di povertà.

Questo fenomeno in Italia è particolarmente critico. I dati Istat sui lavoratori dipendenti ci dicono che circa il 12 per cento degli occupati è a rischio di povertà. Confrontando la situazione italiana con quella degli altri paesi europei, vediamo che fanno peggio di noi solo Romania, Spagna e Lussemburgo. Oltre a ciò, è preoccupante il trend che vede questo dato peggiorato negli ultimi dieci anni di 2,5 punti percentuali per l’Italia a fronte di soli due altri paesi con una crescita paragonabile: Estonia e Regno Unito. 

Ma come è possibile? I meccanismi sono sostanzialmente due. Da un lato il reddito da lavoro è basso, dall’altro il reddito non è sufficiente per tutti i componenti della famiglia. Nel primo caso un lavoratore guadagna poco perché ha un basso salario, lavora poche ore o lo fa in maniera discontinua nell’anno. Spesso è la combinazione di questi elementi.

I casi di working poor

Un esempio di un working poor è quello di una ragazza impiegata in uno studio per sole due ore al giorno per cinque giorni. Un altro è quello di un ragazzo, assunto tramite una cooperativa di servizi magari presso un ente pubblico. La sua paga oraria è così bassa che, pur lavorando tutto il giorno in maniera continuativa, ha uno stipendio sotto la soglia di povertà. Un terzo caso può essere quello di un o una insegnante che, sebbene sia ampiamente disponibile, lavora solo sporadicamente facendo supplenze. Tralasciamo volutamente le situazioni che alcuni definiscono di lavoro gratuito – per esempio di giovani sfruttati in imprese private in cambio di una referenza sul curriculum – in quanto una delle caratteristiche di una occupazione per essere definita tale è quella di avere la capacità di dare reddito alla persona occupata.

Il secondo meccanismo non fa riferimento all’inadeguatezza del reddito da lavoro del singolo individuo, ma a quello della famiglia del lavoratore. Una famiglia di due adulti e due bambini dove lavora solo uno dei genitori può facilmente trovarsi in difficoltà economica perché lo stipendio non basta a pagare l’affitto o il mutuo della casa, la spesa alimentare, le bollette, i costi legati all’uso dell’automobile, il cellulare. In questo caso il problema della povertà può essere riconducibile, tra altri elementi, alla bassa intensità da lavoro a livello familiare, ossia al fatto che solo uno dei due adulti lavora.

Focalizzandoci solo sulle politiche del mercato del lavoro piuttosto che sulle politiche sociali (che bisognerebbe comunque potenziare) ci sono almeno due misure che si possono considerare per contrastare il problema della povertà da lavoro: concentrarsi sulla scarsità dell’occupazione in termini di “quantità di lavoro” – più opportunità occupazionali e meno part-time involontari – e intervenire sulla “qualità del lavoro” – occupazioni stabili e ben retribuite. La qualità del lavoro include molti aspetti, tra cui l’offrire un reddito adeguato, permettendo agli individui e alle loro famiglie di evitare la povertà.

Questi aspetti sono così rilevanti che diversi attori, per prima la Commissione europea, stanno promuovendo l’istituzione di misure di contrasto alla povertà da lavoro. In particolare, due azioni sono dirimenti: incentivare l’occupazione femminile e introdurre un salario minimo. Più donne lavorano, più i redditi familiari aumentano, dato che nelle famiglie monoreddito quasi sempre è l’uomo ad essere impiegato. Più si alzano gli stipendi, più è probabile che le famiglie non siano povere (o lo siano meno). Su quest’ultimo punto una direttiva europea di un paio di mesi fa invitava tutti i paesi a garantire che i lavoratori fossero adeguatamente retribuiti.

L’Italia purtroppo è uno dei sei stati in Europa in cui ancora non esiste una norma sul salario minimo. Dai recenti dati che l’Istat ha preparato per i lavori della XI Commissione del Senato sull’introduzione di un salario minimo emerge un quadro piuttosto critico. Un lavoratore dipendente su venti percepisce meno di 7,66 euro lordi all’ora (al di sotto della soglia minima) e lavora in media in un anno circa la metà delle ore degli altri. Quindi il cinque per cento degli occupati inquadrati come lavoratori dipendenti lavora poco ed è pagato meno. Inoltre, il basso salario pagato a parte dei lavoratori dipendenti penalizza anche quei datori di lavoro che invece li retribuiscono adeguatamente, creando casi di concorrenza sleale tra imprese che sono assimilabili quasi al lavoro nero. Visto il periodo delicato che l’Italia sta attraversando, quello che possiamo augurarci è che la recente crisi di governo non rallenti o addirittura interrompa i lavori finalizzati all’introduzione di un salario minimo garantito.

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