Il prodotto interno lordo pro-capite, o reddito medio individuale, e la sua crescita nel tempo, è considerato la misura chiave dello stato di salute economica di un paese. Difficile trovare una formazione politica che non si ponga l’obiettivo della crescita; e spesso è proprio su questo risultato che si valuta un governo. Pur essendo una misura limitata e spesso criticata, nel corso degli anni la ricerca ha mostrato una relazione positiva tra reddito pro capite (e la sua crescita) e altri aspetti rilevanti come l’istruzione, la salute, l’occupazione.

L’importanza della crescita economica nel dibattito politico e forse anche nell’immaginario collettivo è un tema relativamente recente e caratteristico dell’era contemporanea. In precedenza, le condizioni economiche della popolazione mondiale sono state pressoché le stesse per centinaia di anni. Dal 1500 al 1800, per esempio, si stima che la crescita media annua del reddito pro-capite nel mondo occidentale sia stata dello 0.14 per cento: a questo ritmo, ci sarebbero voluti circa cinquecento anni per raddoppiare il reddito medio individuale. 

è dalla fine del diciottesimo secolo che le cose hanno  cominciato a cambiare, a partire dai paesi che per primi fecero esperienza della rivoluzione industriale. Il tasso di crescita economica di sempre più nazioni è ulteriormente cresciuto nei primi decenni del 1900, e ancor di più nel secondo dopoguerra.  Dal 1950 ai primi anni Settanta, per esempio, il tasso annuo di crescita in Europa occidentale è stato del 3.8 per cento, capace di raddoppiare il reddito pro capite in soli diciannove anni.

Il motore del progresso

Questo nuovo fenomeno, e il concomitante sensibile miglioramento delle condizioni di vita, rese il tema della crescita centrale nel dibattito politico, e tra i più affrontati nella scienza economica a partire specialmente dagli anni Quaranta. Come ebbe a dire  Robert Lucas, premio Nobel per l'Economia, “Una volta che si comincia a pensare alla crescita economica e alle sue conseguenze, è difficile pensare ad altro”. L'impennata repentina del tasso di crescita rivelo’ in particolare che le cause non potevano solo essere l’aumento della popolazione (e delle ore di lavoro) o dei beni capitali, terra e materie prime a disposizione. Piuttosto, le due rivoluzioni industriali di fine ‘700 e fine ‘800 avevano introdotto innovazioni tecnologiche e organizzative che consentivano di produrre più e meglio con la stessa quantità di fattori. La crescita della produttività (prodotto per ora lavorata) era insomma la chiave della crescita economica, e il consenso era che l’innovazione, tecnologica e organizzativa, era il principale motore della produttività. Il telaio a vapore, per esempio, aveva velocizzato la produzione tessile e reso più efficace concentrare il lavoro nelle fabbriche; il treno aveva facilitato movimenti a lunga distanza. Il motore a scoppio, l'elettricità, le reti fognarie, i progressi medici e l’aviazione commerciale rivoluzionarono la vita domestica e le attività e scambi economici, grazie anche alla maggiore scolarizzazione.

Ma se da una parte c’era un consenso sul ruolo dell’innovazione tecnologica per la crescita, le opinioni su come agevolare l’innovazione divergevano, e l’evidenza su quali ricette funzionassero raramente si è rivelata convincente e generalizzabile a diversi contesti.

Come stimolare la crescita?

Chi indicava nelle imprese il motore principale dell’innovazione, per esempio, proponeva di liberare la creatività’ imprenditoriale con riduzione delle tasse, deregolamentazione e privatizzazioni. Tuttavia, l’evidenza mostra che a minor tassazione non necessariamente

corrisponde una maggior crescita della produttività e del reddito. Altri hanno visto in una maggiore protezione dei diritti di proprietà intellettuale (per esempio i brevetti) un necessario stimolo per inventori e imprenditori. Ma numerosi studi più’ recenti evidenziano numerose inefficienze del sistema brevettuale, che possono rallentare il progresso scientifico e tecnologico. I tentativi di replicare il successo tecnologico ed economico di alcune regioni, come la Silicon Valley in California, Singapore, o Israele, sono stati in larga parte deludenti: Josh Lerner della Harvard Business School ha evidenziato che la maggior parte di interventi di promozione dell’imprenditoria “high tech” sono falliti. Inoltre, favorire l’agglomerazione di imprese in certe aree per favorire la circolazione di idee e personale qualificato ha spesso generato benefici solo di breve periodo, di frequente a scapito di altre aree geografiche in un paese.

Negli ultimi venti anni, inoltre, alle difficoltà di individuare i meccanismi per cui l’innovazione tecnologica si traduce in crescita economica, si sono aggiunti dubbi su quanto poi l’innovazione determini la crescita. Dall’inizio del ventunesimo secolo, la produttività di molte economie, e di conseguenza il reddito pro-capite, sono cresciuti molto lentamente. Robert Gordon della Northwestern University ha recentemente proposto un’interpretazione radicale: le innovazioni dell’era digitale potrebbero non essere rilevanti abbastanza per stimolare produttività e crescita. Il motore a scoppio, le innovazioni mediche, l'elettricità e, in buona misura, lo stesso computer hanno già esaurito il loro contribuito all’aumento della produttività. Gli sviluppi di tecnologie più recenti come l’intelligenza artificiale, secondo Gordon, non hanno fatto progressi sostanziali negli ultimi vent’anni, e per la maggior parte hanno applicazioni che non creano valore aggiunto, come per esempio nel marketing. La stessa sostituzione del lavoro umano da parte di macchine intelligenti è in larga parte già avvenuta. Per altre innovazioni, come i social media o la nuova generazione di videogiochi, non è nemmeno chiaro se l’effetto netto sul benessere sia positivo o negativo – secondo alcune ricerche, le perdite di tempo e i rischi di dipendenza superano i potenziali benefici.

I mezzi e i fini

Si tratta di una posizione controversa, ma è un fatto che la crescita della produttività è rimasta ormai stabile a bassi livelli per oltre tre lustri. L’ex Segretario al Tesoro negli USA Larry Summers prevede un lungo periodo di bassa crescita. Le scarse opportunità di investimento rispetto ai risparmi disponibili e l'invecchiamento della popolazione sono alla base di questo pessimismo. Un’ulteriore spiegazione di questa tendenza è, secondo Summers, la crescente disuguaglianza. Karen Dynan, professoressa ad Harvard, ha infatti mostrato che l’assottigliamento della classe media porta a una riduzione globale dei consumi. A sua volta, questo riduce le opportunità di investimento per le imprese, o, come ha scoperto  Javier Jaravel della London School of Economics, a una concentrazione su innovazioni destinate solo alle classi più agiate, che tendono però a spendere una quota minore delle loro disponibilità economiche.

Le implicazioni di questi scenari sono di particolare rilevanza per le forze politiche di orientamento progressista. Jason Furman (membro del Consiglio Economico nell'amministrazione Obama), per esempio, nota che in un contesto di disuguaglianze crescenti politiche redistributive possono ragionevolmente ottenere sia maggiore equità’ sia maggiore crescita, due obiettivi spesso visti come antagonisti. Inoltre, politiche che sostengano la natalità, per esempio con investimenti in asili nido o congedi parentali più generosi per entrambe i genitori, potrebbero contrastare l’invecchiamento della popolazione. Una politica complementare per riequilibrare la struttura demografica e immettere generazioni più giovani nella società è rappresentata da politiche migratorie più accoglienti e inclusive. Se, poi, la direzione dell’innovazione tecnologica non risulta particolarmente utile alla crescita, allora forse c’e spazio per rivalutare politiche industriali che facilitino direzioni di maggior valore sociale.

Infine, nel loro recente saggio Una buona economia per tempi difficili, i premi Nobel Abhijit Banerjee e Esther Duflo ci ricordano che la crescita economica è un mezzo per ottenere altri obiettivi, e non un fine in sè. Le persone aspirano, ad esempio, ad avere a disposizione buone scuole per i loro figli, a lasciare un pianeta più pulito, ad avere buona salute e lavori dignitosi, a un mondo che sia in pace e non in guerra. Spesso si sottovalutano queste aspirazioni, e anzi si interpreta il loro raggiungimento come mezzo per ottenere crescita economica. Ma poiché sappiamo ancora poco di quali politiche causino una crescita sostenuta di produttività e reddito, forse dovremmo davvero invertire l’ordine e definire interventi specifici per fini specifici: aumentare la scolarizzazione, ridurre le disuguaglianze, favorire lavori “buoni”, investire in prevenzione sanitaria e igiene pubblica, introdurre legislazioni ambientali più severe, incentivare investimenti in tecnologie pulite.

I programmi di investimenti pubblici senza precedenti in corso di approvazione negli Stati Uniti e in Europa potrebbero rappresentare un’occasione per focalizzarsi su interventi più mirati alle finalità ultime di interesse per le persone, con meno enfasi su temi tanto evocativi quanto elusivi come innovazione, tecnologia e produttività.

© Riproduzione riservata