Come ci rappresentiamo la disuguaglianza, diventata un tema centrale nel discorso pubblico e politico? La ricerca sociale può fornire dati e idee al riguardo; suggerisce in particolare due prospettive per entrare nel problema. La prima è l’idea del ritorno della disuguaglianza economica. La seconda, è la moltiplicazione delle disuguaglianze.

Disuguaglianza economica

La disuguaglianza economica si misura con le differenze di patrimoni e redditi. Abbiamo abbastanza dati per dire che è un fenomeno di tutti i paesi, è distribuita in modo disomogeneo, l’Europa è la zona a minore disuguaglianza misurata su entrambi i parametri.

Osservando i paesi avanzati, si nota una minore disuguaglianza in Europa rispetto agli Stati Uniti. A una grana più fine, si osservano poi paesi europei a grado diverso di disuguaglianza.

I dati a disposizione sul lungo periodo permettono di osservare la maggiore disuguaglianza all’inizio del Novecento, la sua continua diminuzione sino a trent’anni circa dopo la Seconda guerra mondiale, la risalita poi in tutti i paesi; in Europa meno che negli Stati Uniti. La disuguaglianza è ritornata.

Questi dati, forniti dal World Inequality Lab di François Piketty, descrivono una vicenda del capitalismo industriale e della sua fine con il passaggio a un’economia trainata da tecnologie e settori dell’informazione e della comunicazione.

Il passaggio è segnato anche da due diversi regimi istituzionali di regolazione. Il primo, messo a punto nel Dopoguerra, era basato su politiche keynesiane che raccomandavano l’uso della spesa pubblica per spingere al pieno impiego produttivo del capitale e alla piena occupazione, e per distribuire i vantaggi della crescita con lo sviluppo di sistemi di welfare state.

Si trattava dunque di un assetto istituzionale di regolazione insieme economica e sociale. Ne era derivata una crescita economica senza precedenti e inclusione sociale allargata. Il modello è entrato in crisi con la fine della società industriale, per la quale era stato pensato.

La svolta neoliberista

La reazione è stata la svolta neoliberista, che a gradazioni diverse si è estesa a tutti i paesi. La ricetta comprendeva meno vincoli per il mercato, privatizzazione d’imprese pubbliche, riduzione delle imposte, ostilità nei confronti dei sindacati, contrazioni dei sistemi di welfare state. 

In clima neoliberista si è estesa la globalizzazione, e la regolazione a livello nazionale è diventata più difficile; con la finanziarizzazione dell’economia, gli investimenti speculativi hanno contrastato quelli produttivi a redditività differita dell’epoca industriale, diventando un generatore d’instabilità sistemica.

L’economia è ora più differenziata, gli individui sono più lasciati a sé stessi; alcuni hanno le risorse per essere competitivi, altri mancano di risorse materiali, culturali, di relazione. Accanto ai lavori avanzati si sviluppano quelli poveri e occasionali.

Anche il mosaico delle classi è più diversificato: non si definiscono vaste aggregazioni abbastanza omogenee di interessi, facili da esprimere in modo unitario in politica. La cura neoliberista ha rimesso in moto l’economia, ma con andamenti ad alti e bassi, e ricorrenti forti crisi, tamponate con difficoltà.

Il caso Italia

La disuguaglianza cresce ovunque in Europa ma questa resta a livelli più contenuti nei paesi con tradizioni di politiche inclusive e di concertazione fra stato e rappresentanti d’interessi, come Norvegia, Danimarca, Svezia, Finlandia. La comparazione mostra qui anche buoni andamenti dell’economia; questo è un riferimento importante per la ricerca di nuovi assetti istituzionali in Europa, efficaci e possibili in condizioni cambiate.

L’Italia è un paese più disuguale degli altri europei con cui di solito ci confrontiamo. Anche da noi la disuguaglianza cresce da tempo, e ci sono segni preoccupanti che sia incistata profondamente nel sistema: nei casi di crisi internazionali che si sono presentati, ha sempre fatto un balzo, non riassorbito successivamente. È il segnale che si tratta di un problema strutturale primario, da affrontare come tale con decisione.

I confini della disuguaglianza cambiano: disuguaglianze che erano accettate culturalmente, o sopportate perché senza forza per esprimersi, al cambiare di circostanze si fanno avanti sulla scena pubblica, culturale e politica. 

François Dubet, sociologo francese, ha detto che le disuguaglianze si moltiplicano.
È un fenomeno tipico della società postindustriale quando sono venute meno grandi classi sociali relativamente omogenee, in particolare la classe operaia.

In tali circostanze vengono a galla altre disuguaglianze sociali, in cerca di riconoscimento nella loro specificità, per superare condizioni pensate come discriminazioni. Sono disuguaglianze di genere (migliorate ma ancora distanti da un vero superamento), generazionali (legate in primo luogo, ma non solo al problema del lavoro in una società dove posti stabili, carriere e corsi di vita prevedibili sono diminuiti), etniche e culturali (un problema variegato e cresciuto con la crescita delle migrazioni), di orientamento sessuale (culturalmente problematiche), di luogo di vita (le periferie, le regioni rimaste indietro), e altre ancora.

Confini che cambiano

Non sono fenomeni del tutto nuovi ma nuova è la loro emergenza culturale e politica come condizioni di discriminazione in cerca di riconoscimento, ognuna nella sua specificità; queste disuguaglianze hanno dinamiche proprie e si combinano in modi diversi fra loro, accomunando ognuna anche figure di classi sociali diverse.

Le nuove disuguaglianze complicano il quadro delle condizioni sociali da regolare, ma lo stimolo al loro riconoscimento deve essere inteso come rispetto e affermazione del valore dell’individualità. Le nuove disuguaglianze si configurano come aspirazione a diritti di cittadinanza, per superare la condizione di persone non pienamente riconosciute e protette come cittadini. 

Il ritorno della disuguaglianza economica e la moltiplicazione delle disuguaglianze sono fenomeni intrecciati, entrambi effetto e aspetto del più generale cambiamento sociale.
Tutte le società conoscono disuguaglianze, più e meno marcate, e più e meno legittimate, vale a dire accettate culturalmente e politicamente. Le disuguaglianze devono essere dunque giustificate con argomenti funzionali, morali, politici; i confini della disuguaglianza cambiano e la domanda diventa: quanta e quale disuguaglianza siamo disposti ad accettare?


Arnaldo Bagnasco interverrà alla rassegna “Disuguaglianze e democrazia. Quale futuro per un capitalismo democratico?”, a cura del Mulino, alla Nuvola di Roma il 26 marzo.

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