Ci sono insidie nascoste nella misurazione della povertà, che non è un fenomeno “oggettivo”. Essere avvertiti di tali insidie è particolarmente necessario quando si analizza il fenomeno dei cosiddetti “lavoratori poveri”, i working poor. Perché gli indicatori nascondono una precisa visione di questa manifestazione della povertà e perché essi possono influenzare le politiche di contrasto del fenomeno.

Iniziamo con due esempi, riferendoci al modo in cui l’Istituto di Statistica europeo (Eurostat) definisce e misura i lavoratori in condizione di in-work poverty (IWP). Un lavoratore si vede decurtare il proprio salario che scende al di sotto di un livello che tutti considererebbero di povertà. Contemporaneamente, la moglie o un altro membro del nucleo familiare inizia un lavoro precario che contribuisce a compensare la perdita di reddito del nucleo. In conseguenza di ciò il nostro lavoratore, malgrado il salario da fame, potrebbe non essere considerato un lavoratore povero. Eurostat individua i working poor non sulla base del reddito da lavoro da loro percepito, ma del reddito disponibile equivalente che è desunto dai redditi dell’intero nucleo familiare (per essere considerati working poor quel reddito deve essere inferiore al 60 per cento della mediana nazionale).

Il secondo esempio è questo: un working poor lavora meno giorni e scende sotto la soglia dei 7 mesi di lavoro all’anno. Secondo Eurostat, coloro che lavorano meno di 7 mesi all’anno non sono working poor; magari sono semplicemente poveri ma non lavoratori.

In base a questa definizione si può non essere lavoratori poveri anche se si percepisce un salario da fame (quando la famiglia compensa) o si lavora meno di 7 mesi all’anno (forse perché si assume che tutti possano liberamente scegliere di lavorare più a lungo).

La modalità ufficiale di misurazione della IWP da parte delle istituzioni europee porta a una stima del fenomeno inferiore a quella che fornirebbero criteri più attenti alla retribuzione del lavoratore, con effetti paradossali nel caso delle donne. Prima della pandemia, in Italia l’incidenza dell’IWP, secondo Eurostat, era del 11,8 per cento, superiore a quella media dell’UE-27 (9 per cento) ed era molto più alta fra gli uomini (13,1 per cento) che fra le donne (10,1 per cento).

Questa differenza di genere si spiega ricordando la definizione di Eurostat: sono molte le donne che lavorano poco durante l’anno e in generale sono, nel nucleo familiare, second earner, dunque anche quando percepiscono un salario da fame hanno più frequentemente degli uomini un reddito familiare che le ‘protegge’ dalla IWP. Servirebbero quindi indicatori che colleghino la dimensione individuale e quella familiare. Un’ipotesi potrebbe essere quella di affiancare all’individuazione dei low-pay workers una stima del rischio di povertà del loro nucleo familiare. Può essere utile dare conto degli esiti a cui conduce una stima condotta con dati Eurostat adottando questo approccio. Seguendo la sola “prospettiva individuale” (cioè il reddito percepito dal lavoratore o dalla lavoratrice), nel 2017 in Italia i working poor erano il 20,2 per cento di coloro che percepivano nell’anno un reddito da lavoro positivo e il gender pay gap era assai ampio: 15,3 per cento fra gli uomini contro 26,6 per cento fra le donne.

Inoltre, diversamente da quanto solitamente si crede, la condizione individuale di ‘low pay’ e quella familiare di ‘at risk of poverty’ sono debolmente correlate: in Italia nel 2017 il 61,1% degli individui a basso salario non era povero in un’ottica familiare, mentre il 41,2% di chi viveva in un nucleo povero aveva una retribuzione superiore alla possibile soglia di low pay.

Questione di dignità

Soprattutto ai fini di una valutazione su cui basare efficaci azioni di policy, bisognerebbe distinguere accuratamente chi è povero su due dimensioni (scarso reddito individuale e familiare) da chi è povero su una soltanto. Al riguardo l’indicatore di Eurostat spinge in una chiara direzione di contrasto della IWP: aumentare il complessivo tempo dedicato al lavoro dal nucleo familiare senza che assumano particolare rilievo le condizioni salariali. Tutto ciò sembra riflettere una concezione per la quale si può non essere lavoratori poveri anche se il lavoro ha ben poco di dignitoso.

Anche per ampliare il ventaglio delle politiche in grado di contrastare il fenomeno occorre adottare un approccio più complesso. Non basta guardare alle sole misure dirette a sostenere i redditi familiari o a incentivare l’occupazione femminile purchessia. Si può avere successo nella lotta alla IWP in modi diversi e diversamente coerenti con la dignità del lavoro. Gli indicatori dovrebbero essere costruiti in modo da spingere verso policy in grado di assicurare quella dignità. E si tratta soprattutto di misure di carattere predistributivo in grado di incidere sulle forme contrattuali, su minimi e livelli salariali e sui tempi di lavoro.

 

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