Giovedì la presidenza portoghese del Consiglio europeo ha annunciato l’approvazione della proposta di direttiva sul public country by country reporting (Cbcr), l’obbligo per le imprese multinazionali di pubblicare occupazione, fatturato, profitti e imposte pagate in ognuno dei paesi in cui operano. Come sempre in materia fiscale, cambiamenti di natura tecnica possono avere implicazioni di portata generale. In questo caso i toni trionfalistici della presidenza portoghese sono giustificati: si tratta di una misura di cui si discuteva da anni in Europa, volta a far emergere le pratiche di ottimizzazione fiscale delle multinazionali. Queste evitano da sempre gran parte della tassazione allocando costi e ricavi tra filiali situate in paesi diversi per approfittare delle differenze tra i regimi fiscali. I giganti del web, avendo attivi in gran parte intangibili, hanno portato queste pratiche all’estremo.

Ottimizzazione fiscale

Tanto per fare un esempio, Amazon nel 2019 ha dichiarato in Italia utili bassissimi, e quindi pagato solo 11 milioni di euro, a fronte di oltre un miliardo di fatturato. Il Fmi ha recentemente stimato la perdita di gettito globale causata dall’elusione a più di 500 miliardi di dollari. L’elusione fiscale ha un doppio costo per la società. In primo luogo, essa erode la capacità dello stato di finanziare beni e servizi, in particolare lo stato sociale. In secondo luogo, distorce la concorrenza e consente alle multinazionali di beneficiare di un vantaggio competitivo sulle imprese domestiche, un problema particolarmente sentito nel nostro paese.

La comunità internazionale cerca da anni di combattere l’ottimizzazione fiscale, ma si scontra con l’opposizione dei paesi che di queste pratiche sono beneficiari. L’economista di Berkeley Gabriel Zucman ha mostrato come i paradisi fiscali sottraggano all’Italia risorse equivalenti al 15 per cento del totale delle imposte sulle società (per Francia e Germania i numeri sono anche più importanti). Zucman mostra anche che più del 90 per cento di questa elusione approfitta dei regimi fiscali di favore offerti dai paradisi fiscali che abbiamo in casa, principalmente Lussemburgo, Irlanda e Olanda.

Sono proprio questi paesi che dal 2016 bloccano una proposta della Commissione dall’acronimo impronunciabile (la Ccctb, Common Consolidated Corporate Tax Base). Questa consentirebbe di consolidare l’attività delle multinazionali distribuendo i profitti (e quindi la base imponibile) tra paesi membri sulla base del volume d’affari e dei dipendenti, indipendentemente dalla sede legale: semplificando, Amazon dovrebbe pagare nel nostro paese, e non in Lussemburgo, le tasse su di un libro venduto in Italia. La proposta ha ricevuto il sostegno del parlamento nel 2018 ma da allora giace in un cassetto.

Costo reputazionale

È proprio l’impossibilità di trovare un accordo europeo sulla tassazione che rende l’exploit della presidenza portoghese del Consiglio europeo così importante (la proposta di Cbcr è stata messa in agenda del Consiglio dei ministri del Mercato interno e dell’industria dove, contrariamente alle materie fiscali, è sufficiente la maggioranza qualificata). Molti lettori ricorderanno come le campagne di boicottaggio contro alcune grandi multinazionali come Nike abbiano in passato portato alla riduzione (purtroppo non la sparizione) di pratiche odiose come lo sfruttamento del lavoro minorile.

In un articolo per Social Europe Tommaso Faccio e io notavamo di recente come l’obbligo di trasparenza potrebbe agire in modo analogo, consentendo a consumatori e Ong di organizzare campagne di pressione contro le pratiche elusive delle grandi multinazionali, facendo loro pagare un costo reputazionale. Già oggi alcune multinazionali (come la Shell) hanno deciso di giocare il gioco della trasparenza, messe sotto pressione da opinione pubblica e investitori. Il fondo sovrano norvegese (il più grande del mondo) ha recentemente annunciato che non finanzierà più le imprese che praticano elusione fiscale e non rispettano standard ambientali.

Tasso minimo

Per quanto importante, tuttavia puntare sugli effetti reputazionali e sulla pressione di società civile e investitori rimane una soluzione di ripiego, in assenza di un accordo globale per coordinare le politiche sulla tassazione. Ed è qui che interviene la seconda buona notizia della settimana. Venerdì al G20 finanziario (per la prima volta presieduto dall’Italia) il ministro del Tesoro Janet Yellen ha fatto cadere l’opposizione statunitense a un accordo in sede Ocse sulla fiscalità delle imprese.

L’iniziativa dell’Ocse riposa su due pilastri. Il primo, una versione globale della Ccctb europea, per evitare la localizzazione nei paradisi fiscali e far pagare le tasse alle multinazionali digitali anche nei paesi in cui risiedono i consumatori finali; il secondo, un tasso minimo di imposizione sulle società, al fine di ridurre la concorrenza che oggi si fanno i paesi avanzati per accaparrarsi le multinazionali. La Icrict, una commissione tra i cui membri figurano Piketty e Stiglitz, ha proposto un tasso del 25 per cento.

Il diavolo nei dettagli

Che sia chiaro, siamo ancora lontani da un accordo in sede Ocse; inoltre, come sempre quando si tratta di fisco, il diavolo si nasconde nei dettagli (oggi la discussione verte sulla quota di profitti che sarebbero consolidati e redistribuiti). Tuttavia, con il cambio di guardia alla Casa Bianca le più grandi economie del mondo remano oggi nella stessa direzione. Questo potrebbe smuovere le acque anche da noi.

L’aumentata trasparenza su chi beneficia dell’elusione fiscale e la ripresa del processo di coordinamento in sede Ocse faranno emergere con più chiarezza i vantaggi del sistema attuale per paesi come l’Olanda e il Lussemburgo. Anche in questo caso a quel punto potrebbe giocare la reputazione: la pressione dei paesi partner e della società civile potrebbe spingerle a far cadere il veto alla direttiva Ccctb. Con che faccia il governo olandese potrebbe tuonare contro il debito italiano, se fosse davanti agli occhi di tutti la quantità di risorse che il suo paese drena grazie all’elusione fiscale? Insomma, è stata una settimana complicata per grandi multinazionali e paradisi fiscali. Se il processo rilanciato di recente non subirà altri colpi d’arresto, nel futuro prossimo potremmo vedere maggiore cooperazione tra paesi, minore elusione e un sistema fiscale globale più giusto.

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