Giancarlo Giorgetti aveva annunciato un Def leggero. Che oggi, parole sue, è diventato un «Def asciutto». Più che altro, però, il Documento di economia e finanza messo nero su bianco dal governo e approvato ieri in Consiglio dei ministri ha tutta l’aria di un pacchetto di numeri à la carte, scelti con cura per spargere ottimismo e rimandare a un futuro indefinito il confronto con la realtà dei fatti.

Come previsto, infatti, nel testo illustrato in conferenza stampa da Giorgetti manca il cosiddetto quadro programmatico, cioè gli obiettivi di finanza pubblica e le misure previste per tradurli in pratica. Il Def quindi si concentra sulle stime tendenziali, che descrivono la traiettoria dei conti pubblici in assenza di provvedimenti correttivi. In altre parole, il governo non dice che cosa vuol fare, quali interventi ritiene prioritari e, tantomeno, dove prenderà i soldi per realizzarli.

Numeri e promesse

Se ne riparla più avanti, non prima di settembre, quando Roma dovrà presentare alla Commissione di Bruxelles il Piano fiscale strutturale così come previsto dalle regole europee. Giusto in tempo per predisporre la Nadef, la Nota di aggiornamento al Def e poi la manovra per il 2025.

Intanto, però, l’esecutivo si tiene le mani libere ben oltre la scadenza delle elezioni europee, senza spiegare come pensa di finanziare, tanto per cominciare, la riduzione del cuneo fiscale e il taglio dell’Irpef, le due misure bandiera varate con l’ultima legge di Bilancio, entrambe destinate a esaurirsi entro quest’anno. Restano sullo sfondo anche questioni politicamente sensibili come sanità e pensioni. Che ne sarà dei promessi investimenti per tagliare le liste d’attesa? E Quota 103 difesa a spada tratta dalla Lega? Tutte queste promesse per ora restano appese al muro scivoloso del bilancio pubblico.

La resa dei conti con la realtà presto o tardi arriverà, ma intanto il governo prende tempo. «Intendiamo assolutamente replicarlo nel 2025», ha detto Giorgetti in conferenza stampa parlando di decontribuzione, ovvero l’intervento sul cuneo fiscale che costa almeno una dozzina di miliardi, a cui vanno sommati i 4-5 miliardi dell’accorpamento delle aliquote Irpef.

Effetto Superbonus

Come il ministro dell’Economia non ha mancato di ricordare, il macigno che grava sui conti pubblici si chiama Superbonus, a cui vanno aggiunti gli altri sgravi fiscali per l’edilizia per un totale di circa 210 miliardi di euro. Questa somma si scaricherà progressivamente sul debito pubblico almeno nel corso del prossimo triennio, ma forse anche di più.

Addio percorso virtuoso di risanamento, quindi. L’asticella del debito per quest’anno è stata fissata a quota 137,8 per cento del Pil, qualcosa in più del 137,3 per cento del 2023, un dato che era stato corretto al ribasso dall’Istat. Nel 2025 si arriverà al 138,9 per cento e l’anno dopo al 139,6 per cento. Questo, va ricordato, è il quadro tendenziale, cioè in assenza di interventi da parte del governo. Lo stesso vale per il deficit, che nel Def appena varato scenderà dal 7,2 per cento del 2023, dato che recepiva per intero gli oneri del Superbonus, fino al 4,3 per cento previsto per quest’anno, per poi calare ancora al 3,7 per cento del 2025 e al 3 per cento del 2026.

Aggrappati al Pil

Fin qui i numeri governativi, quelli del Def leggero, che restano comunque appesi a una grande incognita, quella della crescita.

L’andamento di debito e deficit viene infatti calcolato in rapporto al Pil, che quest’anno, in base al documento approvato in Consiglio dei ministri, dovrebbe far segnare un aumento dell’1 per cento. Qualcosa in meno rispetto all’1,2 per cento inserito nella Nadef dell’autunno, ma la stima dell’esecutivo sembra comunque peccare di ottimismo, almeno in confronto a quanto previsto da Banca d’Italia, che vede una crescita non superiore allo 0,6 per cento, dalla Commissione europea (più 0,7 per cento) e dal Fondo monetario internazionale (più 0,7 per cento).

A complicare le cose, oltre alle incertezze del quadro geopolitico, c’è anche una novità di per sé positiva come il calo dell’inflazione, prevista all’1,6 per cento nel 2024. L’anno scorso e quello precedente, il boom dei prezzi aveva infatti contribuito a far crescere il Pil nominale riducendo di conseguenza il rapporto tra lo stesso Pil e il debito.

Cambio di scenario

Adesso, però, il governo è costretto a confrontarsi con uno scenario del tutto diverso. L’inflazione, quest’anno, non darà una mano. Per metter mano ai conti e rispettare le indicazioni di Bruxelles, vanno percorse strade diverse e necessariamente più impervie. Il tema è scivoloso, per il governo. E infatti Giorgetti è rimasto sul vago. «Vedremo come razionalizzare la spesa pubblica», ha tagliato corto il titolare dell’Economia, facendosi scudo, ancora una volta, del disastro del Superbonus, che «complica il quadro».

Verifiche e controlli sui crediti edilizi «proseguiranno», assicura il ministro, ma pare difficile che il grosso delle risorse necessarie possa arrivare dalla repressione delle frodi, per quanto grandi.

Si torna a parlare di vendita di immobili di stato. Nel programma di governo ci sono le privatizzazioni annunciate per 20 miliardi in tre anni. Molti buoni propositi, ma poca sostanza, per ora. D’altronde a questo serve il Def leggero, o asciutto. Qualche numero per prendere tempo e vedere l’effetto che fa.

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