La materia è «radioattiva», si lasciò sfuggire Giancarlo Giorgetti poco prima di Natale parlando di Superbonus. Forse il ministro dell’Economia sperava di sbagliarsi o almeno di aver archiviato con una battuta anche l’ultimo dei numerosi aggiornamenti sui costi reali della più generosa agevolazione fiscale della storia repubblicana. Nel primo caso gli è andata male. Nel secondo, pure.

Proprio come le scorie nucleari, anche il Superbonus continua a fare danni anche se il governo ha tentato a più riprese di disinnescarne gli effetti nefasti sui conti pubblici.

Da qualche giorno abbiamo scoperto, grazie all’Istat, che il disavanzo dello Stato nel 2023 non ammonta al 4,5 per cento del Pil previsto dal Documento di economia e finanza (Def) della primavera scorsa e neppure al 5,3 per cento messo nero su bianco nella Nota di aggiornamento (Nadef) di novembre. Il conto finale arriva al 7,2 per cento.

L’aumento rispetto alle stime d’autunno sfiora i due punti percentuali di Pil, e la differenza, pari in termini assoluti a circa 40 miliardi, è da addebitare quasi per intero ai costi supplementari e imprevisti del Superbonus.

Ragioneria sotto accusa

La notizia, com’era prevedibile, ha riacceso le tensioni latenti da tempo tra Giorgetti e la Ragioneria generale dello Stato guidata da Biagio Mazzotta, un tecnico di grande esperienza nominato ai tempi del primo governo Conte, quello tra Lega e Cinque Stelle, e confermato da tutti i successivi esecutivi, compreso quello di Giorgia Meloni.

Solo che adesso alla struttura di Mazzotta viene rimproverato di non aver visto arrivare l’onda anomala dei bonus per le ristrutturazioni edilizie. Va detto che da quando il Superbonus è stato introdotto, a maggio del 2020 con il secondo governo Conte (Pd- Cinque Stelle), tutti i partiti, compresi Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, hanno tentato in ogni modo di ritardare ogni correzione sostanziale del provvedimento.

Adesso la poltrona di Mazzotta, già a rischio da prima, traballa ancora di più. Il cambio al vertice della Ragioneria (possibile ma tutt’altro che sicuro) non sarà comunque di grande aiuto per affrontare il pericoloso scoglio politico che il governo si prepara ad affrontare nelle prossime settimane, quando dovrà essere messo a punto il nuovo Def che traccia la rotta della finanza pubblica per quest’anno.

È un impegno doppiamente importante. In primo luogo perché il Documento dovrà essere pubblicato all’inizio di aprile, quando ormai sarà già entrata nel vivo la campagna elettorale per il voto europeo di giugno. I numeri di Roma saranno inoltre alla base di una prima valutazione della Commissione Ue sul rispetto delle regole del Patto di stabilità appena siglato anche dal governo italiano. Il futuro è quanto mai incerto.

Crescita a rischio

Nel 2023 l’inflazione, gonfiando il Pil nominale, ha contribuito a dare un taglio al rapporto con il debito pubblico, che secondo l’Istat l’anno scorso si è fermato al 137,3 per cento. In prospettiva, però, c’è poco da stare allegri. L’impennata del deficit causata dal Superbonus è destinata a tramutarsi in debito supplementare.

Le stime più prudenti ipotizzano che i nuovi oneri ammontino a una quarantina di miliardi nell’arco dei prossimi dodici mesi, quando i crediti d’imposta, una volta utilizzati dalle famiglie, ridurranno il gettito fiscale per lo Stato. Lo stesso meccanismo, per importi simili, è destinato a continuare almeno fino al 2026.

Nel frattempo, l’inflazione che ha gonfiato il Pil continuerà a ridursi ed entro la fine dell’anno potrebbe avvicinarsi al 2 per cento che rappresenta la soglia-obiettivo della politica monetaria della Bce. La crescita del Pil per il 2024, invece, difficilmente arriverà all’1,2 per cento previsto dal governo nella Nadef.

È vero che il 2023 si è chiuso con un incremento dello 0,9 per cento leggermente superiore allo 0,8 per cento stimato dall’esecutivo in autunno. Ed è una buona notizia anche lo 0,2 per cento che l’Istat ha rilevato come crescita economica già acquisita per quest’anno. Le prospettive per i prossimi mesi però sono quanto mai incerte.

Banca d’Italia prevede una crescita dello 0,6 per cento nel 2024, il Fondo monetario si spinge allo 0,7 per cento e la Commissione Ue allo 0,9 per cento. Numeri comunque lontani dall’1,2 per cento della stima governativa. Preoccupa soprattutto la stagnazione dei consumi delle famiglie, che nell’ultimo trimestre del 2023 si sono ridotti dell’1,4 per cento.

Insomma, pare difficile che la crescita economica possa dare un contributo sostanziale a indirizzare il rapporto debito/Pil verso una progressiva riduzione, come chiede Bruxelles. Se poi si considera che il governo promette anche nuove misure, difficilmente a costo zero, per stimolare l’economia, allora il prossimo Def minaccia di diventare qualcosa di molto simile a un’equazione impossibile.

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