«Questa battaglia ci riguarda tutti»: così il collettivo di fabbrica dello stabilimento Gkn di Campi Bisenzio ha chiesto oggi di “Insorgere” con una manifestazione a Firenze a sostegno dei lavoratori, ricevendo solidarietà da tutta Italia. 

In effetti, le motivazioni con cui i 422 lavoratori sono stati licenziati lo scorso luglio dal fondo inglese Melrose proprietario della multinazionale Gkn sono estremamente preoccupanti per tutto il settore automotive.

Nella mail di licenziamento arrivata via Pec ai lavoratori nella notte del 10 luglio si parla di una «complessiva non sostenibilità dello stabilimento» in conseguenza del «crollo delle vendite di un mercato automobilistico che ha subito profondi cambiamenti» e che vede una «feroce competitività». Una situazione, secondo l’azienda, «irrigidita anche dai vincoli dovuti alle politiche ambientali». 

Le trasformazioni di cui si parla nella lettera alludono al passaggio alla mobilità elettrica. Con il pacchetto Fit for 55, infatti, lo scorso 14 luglio la Commissione europea ha annunciato l’obiettivo di riduzione delle emissioni del 55 per cento entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Tra le iniziative legislative c’è anche quella di diminuire le emissioni auto del 55 per cento dal 2030 e del 100 per cento dal 2035. Un obiettivo ambizioso su cui molti paesi europei (in primis Francia e Germania) hanno già iniziato a investire a livello industriale privilegiando incentivi alla grosse aziende nazionali.

Ha ragione allora Gkn? L’azienda sarebbe costretta a delocalizzare per inseguire la trasformazione verde dei trasporti in tutta Europa? Non esattamente. Nello stabilimento di Campi Bisenzio, infatti, si producono prevalentemente semiassi: una componente necessaria anche all’auto elettrica, tanto che l’azienda aveva già vinto commesse per Fca per il modello del Ducato elettrico.

Quello che emerge invece, secondo un’analisi dell’Institute for New Economic Thinking dello scorso agosto, è che in Italia a livello governativo e aziendale si è smesso di incentivare la produzione industriale “in casa” del settore automotive ormai da almeno tre decenni: deriva che riguarda tanto l’elettrico quanto gli autoveicoli tradizionali.

Nel 2020 i nuovi veicoli elettrici immatricolati ammontavano solo al 2 per cento del totale di contro all’6,4 per cento della Germania e al 6,7 per cento della Francia. Cifre contenute, che lasciano già intravedere una tendenza. Mentre nel Pnrr gli unici incentivi alla mobilità elettrica previsti coprono 1 miliardo di euro per una leadership in «rinnovabili e batterie» e 750 milioni di euro «per lo sviluppo di infrastrutture di ricarica».

Dal 1999 a oggi la produzione di veicoli è calata del 12 per cento in Germania, in Francia del 39,8 per cento, mentre in l’Italia ha visto un tracollo senza precedenti del 61,5 per cento. Le conseguenze per l’occupazione sono state ancora più drammatiche: dal 1999 si sono persi oltre 36mila posti di lavoro, di cui 4mila solo negli ultimi 10 anni.

Questo dato, secondo Matteo Gaddi, il ricercatore della Fondazione Sabattini che ha condotto lo studio, dipende dalla decisione di concentrarsi sulla sola componentistica, rinunciando alla produzione di veicoli assemblati. 

Dalle auto ai pezzi

«Fino a due decenni fa in Italia si producevano macchine, ora si fanno pezzi. Si è pensato che perdere volumi produttivi sulla parte di assemblaggio finale non sarebbe stato drammatico perché ci saremmo potuti specializzare sulle componenti vendendo a Francia e Germania. Questo ha senso in un’ottica di azienda nazionale, ma nell’ottica di una multinazionale no. L’unico motivo per cui una multinazionale che produce componenti può scegliere di investire in Italia piuttosto che in Polonia o Slovacchia è legata alla produzione in loco di autoveicoli che ne assorbano la domanda: in caso contrario l’azienda preferisce spostare tutto in paesi con un costo del lavoro inferiore», spiega Gaddi.

Lo stesso sta avvenendo per l’elettrico, in cui l’Italia appare sempre più come un paese importatore. «La verità è che l’Italia è l’unico paese senza un piano industriale per la produzione nel settore automotive», aggiunge.

Seguendo questo ragionamento Gkn non starebbe dunque chiudendo i battenti per le scarse prospettive del settore, ma starebbe semplicemente scegliendo di non investire in un mercato nazionale che non riesce ad assorbire la domanda di componenti. 

L’addio di Gkn per l’Italia significherebbe la perdita di un’impresa che potrebbe già ritagliarsi quote di mercato nel settore elettrico.

Gli stessi lavoratori, infatti, hanno deciso di rifiutare la contrapposizione tra occupazione e transizione ecologica, chiedendo di investire nella creazione di nuovi posti di lavoro: «Quando siamo stati assunti non ci hanno chiesto cosa producevamo, se si vuole parlare di transizione ecologica, ci si adoperi per una ristrutturazione dello stabilimento e della produzione», afferma il delegato del collettivo di fabbrica Dario Salvetti.

E conferma anche Michele Di Palma della Fiom-Cgil: «Da parte dell’azienda non ci sono mai state aperture o richieste di discussione su un investimento nella produzione in questo senso».

Dal mondo ambientalista, intanto, è arrivata ai lavoratori la solidarietà della Climate Open Platform, la piattaforma che sta costruendo le mobilitazioni in vista della pre-Cop26, il summit di preparazione dei lavori della Convenzione delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico: «L’abbandono delle fonti fossili e il passaggio alla mobilità leggera non deve essere utilizzato come pretesto per attaccare lavoratrici e lavoratori», hanno dichiarato.

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