Gli Usa non possono vincere la guerra commerciale con la Cina, Trump lo sa

Dopo la tregua estiva, la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina è ripresa con una nuova ondata di misure e contromisure. E, come nella primavera scorsa, a dare il via alle ostilità sono stati gli Stati Uniti. Appena qualche giorno dopo un incontro tra le delegazioni dei due paesi che aveva l’obiettivo di rinormalizzare le relazioni commerciali, l’amministrazione Trump ha imposto nuove restrizioni. Tra queste spiccano un inasprimento dei controlli sulle esportazioni delle aziende cinesi, pensato per rendere più difficile aggirare le regole volte a rallentare lo sviluppo dei semiconduttori di nuova generazione in Cina, e un aumento delle tariffe portuali per le navi battenti bandiera cinese. La Cina colma il vuoto dell’occidente. Anche gli aiuti umanitari diventano spazio di influenza La guerra commerciale riprende La Cina ha aspettato qualche giorno prima di annunciare una rappresaglia che sembra aver colto di sorpresa l’amministrazione Trump, stabilendo che le aziende straniere che esportano prodotti contenenti terre rare dalla Cina debbano ottenere l’approvazione di Pechino. Nonostante il rilancio di Trump (dazi al 100 per cento su tutti i prodotti cinesi a partire dal primo novembre), l’amministrazione americana sembra rendersi conto che le carte che ha in mano non sono granché. Il Financial Times ha spiegato che la Cina, da un lato, la Cina ha gioco facile nell’incolpare gli Usa di improvvisare ed essere inaffidabili; dall’altro, è pronta ad affrontare una guerra commerciale che certamente la danneggerà ma che pensa di vincere. L’articolo riporta la dichiarazione del ministro del Commercio per cui «la posizione della Cina sulle guerre commerciali è sempre stata coerente: non vogliamo combattere, ma non abbiamo paura di farlo». I toni concilianti di Donald Trump, che poche ore dopo aver rilanciato sui dazi al 100 per cento ha scritto sul suo social che al pari «dell’eminentemente rispettato presidente Xi» lui vuole il bene della Cina, mostrano che la fermezza cinese ha svelato che il re è nudo. Nuove tecnologie e più welfare, nel piano quinquennale la scommessa della Cina per superare gli Usa Gli Usa vulnerabili Già in aprile, a caldo, dopo l’annuncio del Liberation Day sull’imposizione di dazi ad amici e avversari, il Diario europeo aveva notato su queste pagine come l’annuncio rivelasse improvvisazione e scarsa conoscenza dei principî di base del commercio internazionale. In un articolo uscito sempre in quei giorni su Foreign Affairs, il presidente del prestigioso Peterson Institute Adam Posen mostrava la fallacia del ragionamento di Trump, per cui gli Stati Uniti hanno una posizione di forza, perché importano dalla Cina molto più di quanto esportino: in caso di una riduzione degli scambi, quindi, perderebbero di meno. Posen mostrava agevolmente che proprio la dipendenza americana dalle forniture cinesi rendeva un’escalation potenzialmente più dannosa per Washington che per Pechino. I costi, infatti, sarebbero stati distribuiti in modo asimmetrico. La Cina, con un avanzo commerciale strutturale e un alto livello di risparmio, avrebbe potuto assorbire un calo delle esportazioni riconvertendo la produzione verso il mercato interno o altri partner. Quella di Posen era una facile previsione: le esportazioni totali cinesi restano sostenute, e se verso gli Stati Uniti sono crollate per il secondo mese consecutivo, segnando un calo del 27 per cento a settembre, quelle verso l’Unione europea e il Sud-Est asiatico sono invece aumentate rispettivamente del 14,2 per cento e del 15,6 per cento. Gli Stati Uniti, invece, devono pagare di più o fare a meno di beni (soprattutto materie prime e beni intermedi) di cui hanno bisogno e che non possono sostituire rapidamente: dai principi attivi farmaceutici ai semiconduttori di fascia media, fino appunto alle terre rare su cui si è abbattuta oggi la scure di Pechino. Insomma, come era facile prevedere, tagliare le importazioni dalla Cina senza avere prima costruito canali alternativi di approvvigionamento significa rendere l’economia americana vulnerabile. L’idea di Trump di poter “vincere” una guerra commerciale ignora il fatto che oggi la Cina ha più margine di manovra di quanto non abbiano gli Stati Uniti. Schiacciata tra Cina e Usa, l’Europa riparta dagli appalti La Cina si è preparata (almeno) dal 2018 Se non fossero stati accecati dall’America First, a Washington avrebbero potuto studiare il comportamento della Cina dopo la prima guerra (piuttosto scaramuccia, se confrontata a quella di oggi) commerciale iniziata da Trump nel 2018 e tenuta a bassa intensità, ma non interrotta, da Joe Biden. Già allora era evidente che dall’altro lato della barricata i dirigenti cinesi ponderavano parole e azioni con in mente una strategia coerente e di lungo periodo, volta a ridurre le proprie vulnerabilità e a rafforzare il controllo nazionale sulle catene del valore. Paradossalmente, proprio le restrizioni commerciali e tecnologiche imposte da Trump e Biden per cercare di rallentarne lo sviluppo nelle tecnologie di punta hanno finito per rafforzare la posizione della Cina. I controlli sulle esportazioni di semiconduttori e altre tecnologie avanzate e il divieto alle aziende americane e non di fornire software o componenti di fabbricazione statunitense ad aziende cinesi strategiche (i lettori ricorderanno il caso Huawei) hanno obbligato Pechino ad avviare un programma di autosufficienza tecnologica. Investimenti pubblici massicci sono confluiti nello sviluppo di semiconduttori, tecnologie di precisione e macchinari di precisione. Pur restando indietro nei chip più avanzati, la Cina ha ormai conquistato un’autonomia sostanziale nella produzione dei semiconduttori “maturi”, indispensabili per automobili, macchinari industriali e gran parte dell’elettronica di consumo. La stessa logica vale per i minerali critici. Sebbene la Cina domini la produzione delle terre rare, in passato dipendeva dagli Stati Uniti e dal Canada per alcuni materiali di nicchia ma strategicamente importanti, come cesio e rubidio, utilizzati in dispositivi elettronici, apparecchiature mediche e strumenti di precisione. Oggi, nuovi progetti minerari nella provincia di Hunan hanno drasticamente ridotto la dipendenza dall’estero. Non è un caso che le restrizioni sulle terre rare arrivino solo ora che la Cina è praticamente autosufficiente. La strategia di Pechino per garantirsi la sicurezza delle catene del valore si estende ormai dalle materie prime ai prodotti finiti, riflettendo una strategia industriale di lungo periodo piuttosto che un protezionismo di breve periodo. Il risultato è che l’equilibrio si è rovesciato. Gli Stati Uniti restano fortemente dipendenti dagli input cinesi (dai componenti per batterie alle terre rare) mentre la Cina si è progressivamente emancipata dalla dipendenza dall’estero. Insomma, Pechino si è preparata per tempo alla guerra commerciale, e pur sostenendo dei costi la vincerà. Trump finalmente se ne rende conto, ma non è chiaro come reagirà: continuando per la sua strada e portando il suo paese contro un muro? Venendo a più miti consigli? O spostando il confronto su terreni nei quali gli Usa hanno ancora qualche vantaggio? Quest’ultima opzione è quella che fa più paura. Usa, la grande fuga verso la Cina di capitali e cervelli: il caos Trump spaventa le imprese