Preoccupa sempre più il divario fra i tassi di sviluppo degli Usa e quelli europei; nel 2015 la dimensione dell'economia Ue era al 91 per cento di quella Usa; il valore è sceso al 65 per cento dopo solo otto anni e il divario non accenna a ridursi. Gli Usa, si sa, emettono da quasi 80 anni la moneta di riserva del mondo, ma nei decenni l'Europa crebbe spesso più degli Usa; perché da almeno 15 anni arretra? Conta la loro maggior propensione ai rischi, l'apertura al nuovo, una spesa militare enorme con grandi ricadute industriali, l'esplosione dei Big Tech (con i suoi immensi rischi sociali).

C'è anche una potente causa politica, gli Usa sono una grande Repubblica federale, con una tradizione giuridica, una regolazione di commerci e concorrenza, nonché un grande mercato dei capitali, di profondità e dimensione senza pari. Perciò ci distaccano, ma possiamo recuperare da europei, senza scimmiottare gli Usa; è già successo, può ancora succedere.

In un mondo tanto cambiato resta grande il potere di attrazione della Ue. Cresce la fila di chi ci vuol entrare, ma anche i grandi stati membri declinano se ci sfugge la posta in gioco; come far prosperare l'Ue in un mondo sconvolto dalle tensioni geopolitiche, dalla guerra russa ai confini, dal cambiamento climatico, dalle grandi migrazioni.

Fra otto mesi si vota per il parlamento Ue, ma neppure tale traguardo ci concentra su quei temi. La nostra “manovrina” cura le clientele, trascura la crescita che ne è nemica, rallenta le riforme che la propiziano. La presidente del Consiglio Meloni sta già attuando nella sostanza la sua “Terza” Repubblica. C'è al comando una donna sola, che pensa da sola, spesso tenendo fuori dalle decisioni anche i ministri competenti. Ogni predecessore ha interpretato a modo suo i poteri di direzione del Consiglio, ma forse solo uno, fra tanti illustri ed esperti, s'è mai allargato quanto lei. Chiedere il senso della storia forse è troppo, ma se Meloni avesse, oltre a tanta furbizia e un bel po' d'arroganza, anche il senso dei limiti (di chiunque, perfino dei suoi), dovrebbe riflettere; il dividendo elettorale della sua (supposta) novità si squaglierà nel tempo come un gelato. Essa, che mai fu oppositrice dialogante, vede nemici in agguato anziché oppositori, ne ha l'ossessione; diffida degli alleati, conoscendoli bene, preferisce affidarsi ai famigli, insieme troppo scarso, in quantità e qualità. Li accomuna l'estraneità alla nostra Costituzione; perciò chiedono al parlamento di fare harakiri.

Magari la “rivoluzionaria riforma” è solo un'arma di distrazione di massa, ma non si capisce perché la nocchiera, in mezzo a questa “gran tempesta” geo-politico-economica, voglia impegnarsi in aspri conflitti istituzionali. Non l'aiuta la modesta competenza, sua e della squadra, anche in economia. La difesa dei nostri interessi che, se ben intesi, coincidono con quelli europei, è in mano ad alcuni volonterosi commercialisti, neanche d'alto rango. Le figure esterne in grado di darci una vernice di credibilità sono rimaste alla larga; da esecrati tecnici, temevano l'ostilità dei suoi fedelissimi. Affrontiamo la stretta finale sulla riforma del patto di stabilità fragili come non fummo mai. Non siamo desiderosi, tanto meno capaci, di coalizzarci con altri stati, per gettare uno sguardo lungo sui mali di cui soffrono l'Europa e l'Italia; magari speriamo ancora in uno scambio fra il suddetto patto e l'adesione al Mes, per la destra, summa dell'angheria europea.

Il compito di Draghi

Qualche giorno fa il predecessore di Meloni, Mario Draghi, ha detto che se la Ue non si dà una politica di difesa atta alla mutata realtà e non evolve verso la piena integrazione, si ridurrà al mercato unico; il quale non sta bene se la Commissione - che nel 2015 aveva autorizzato aiuti di stato per 103 miliardi di euro - ne ha approvati per 730 miliardi fin qui nel 2023. Quasi la metà riguardano la Germania, dotata del maggior spazio fiscale; anche del mercato unico rischiano di restare vaghe vestigia.

Draghi redigerà un rapporto sulla competitività Ue per la prossima Commissione; alla notizia Meloni commentò, con zoppicante logica: «È persona autorevole, avrà un occhio di riguardo verso la nostra nazione». Contare sulla benevolenza dell'arbitro, e poi insultarlo se ci delude, è antico vizio nazionale, ma la scarsa presenza dei draghi nelle nostre fiabe non ci fa conoscere le conseguenze dei loro sguardi.

Possiamo scommetterci, Draghi non farà sconti a noi o alla Ue. L'unione bancaria è un pane cotto a metà, immangiabile. Ciò frena la crescita intra-Ue delle imprese europee, assieme al fermo della Capital Markets Union. In un articolo sul tema pubblicato dal Financial Times in settembre, i ministri delle finanze di Francia e Germania fan melina. Parlano di dettagli, ma nella Ue la finanza alle imprese viene solo per un terzo dal mercato e per due terzi dalle banche, bloccate però entro i propri confini dai timori degli stati di veder defluire la liquidità.

Negli Usa, dove la proporzione è ribaltata, il mercato assorbe meglio i default e abbondano gli investitori, che non devono studiare 27 diritti commerciali prima di decidere. Quella ricerca bisognava affidarla a Draghi cinque o dieci anni fa, ma la Ue, nata e forgiata dalle crisi, è perciò strutturalmente in ritardo. Non sarà un governo che vede l'Ue come un nemico, a contribuire alla soluzione, basta che non la ostacoli. Se il lavoro di Draghi sarà arduo, di più lo sarà attuarne le proposte.

Nella politica italiana già si specula su futuri alti incarichi europei; se Draghi convincesse la nuova Commissione sulle sue proposte, e fosse ancora interessato, quella strada potrebbe aprirsi, magari per la presidenza del Consiglio Europeo. Sarebbe solo la logica conseguenza di un lavoro ben fatto, un segno di salute per la Ue, che partirebbe per una difficile scalata da un tornante critico della storia europea. Speriamo solo che, da quella storia, la generazione al potere nella Ue non sia già tanto lontana da non sentire più l'eco delle sue terribili lezioni.
 

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