Il calo demografico italiano è già un problema e diventerà sempre più grave nei prossimi anni. La riduzione della popolazione significa cittadini più anziani, meno giovani a pagare per i servizi sociali e un minor numero di persone al lavoro per mantenere i livelli di benessere e di Pil. Fino al 2014 il numero di italiani residenti è aumentato, arrivando a più di 60 milioni, ma oggi siamo oltre un milione e mezzo in meno rispetto a dieci anni fa.

Questo problema, però, non riguarda tutte le parti d’Italia allo stesso modo. Nel Mezzogiorno, per esempio, il calo demografico è in atto già da almeno vent’anni, soprattutto in Calabria, Basilicata, Molise e in alcune zone della Sicilia e della Sardegna. Tra il 2003 e il 2013, queste zone hanno perso fino al 4 per cento dei propri residenti (Potenza e Vibo Valentia maglie nere). La situazione, però, è diventata davvero grave negli ultimi dieci anni, quando l’intera popolazione italiana ha iniziato a diminuire: Potenza e Vibo hanno registrato un ulteriore calo dell’8 per cento, mentre a Enna si è raggiunto addirittura un -10 per cento. In generale, nessuna provincia del sud ha avuto un tasso di crescita della popolazione positivo negli ultimi dieci anni. Se si allarga agli ultimi vent’anni, è cresciuta solo la popolazione di Pescara, Teramo, Caserta, Catania, Ragusa, Sassari e Cagliari. Solo 7 province su 38 censite nel Mezzogiorno.
 

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La situazione non è migliore nel centro: fatta eccezione per Prato, Roma e Latina, nessuna provincia ha registrato un tasso di crescita della popolazione positivo dal 2013 a oggi. La situazione è più grave nelle zone meridionali, ma anche spostandosi verso nord ci sono notevoli eccezioni: a Massa Carrara, per esempio, il calo è del 7 per cento, a Ferrara del 5 per cento e stupisce che anche le province toscane registrino una riduzione, fatta eccezione per Prato.

Torino e Genova

Nel nord il quadro è più complesso, ma anche in questa macroregione sono più le province con popolazione in calo piuttosto che in crescita. Qui si vede con chiarezza la differenza tra grandi aree urbane ed economicamente attive rispetto a quelle più periferiche. Periferia, però, non significa solo zone montane o isolate, come le province di Sondrio o di Biella, ma anche città medio-grandi che hanno una popolazione che invecchia sempre più velocemente e non riescono ad attirare giovani lavoratori o studenti universitari. Il caso più eclatante è sicuramente Torino, che ha mantenuto stabile la popolazione rispetto a vent’anni fa, ma ha registrato un calo del 4 per cento dal 2013 a oggi.

Un caso di studio particolare, però, è Genova, che presenta molti dei sintomi che hanno portato le province a registrare un calo demografico così importante. La città è stata protagonista del miracolo economico italiano nel secondo Dopoguerra e, in generale, è stata uno dei vertici del triangolo industriale italiano lungo tutto il Novecento.

Le trasformazioni degli ultimi decenni, prima di tutto il sostanziale abbandono della città da parte dell’industria, hanno cambiato di molto gli equilibri e le fortune di Genova, che non è stata in grado di adattarsi e rinnovarsi. Da qui, una sempre maggiore emigrazione di giovani, sia per studiare sia per lavorare, soprattutto verso Milano, e, di conseguenza, l’invecchiamento e la riduzione della popolazione. I fattori che hanno portato a questo declino sono vari. Il primo è appunto la già citata deindustrializzazione, ma a questa vanno aggiunte la concentrazione molto elevata della ricchezza, in particolare dal punto di vista immobiliare, la scarsa dotazione infrastrutturale della città e la sostanziale incapacità di sviluppare un settore dei servizi di medio alto livello.

Tutti questi fattori hanno fatto sì che moltissime persone lasciassero la città e che quasi nessuno ci si trasferisse, se non per le professioni legate alla silver economy, cioè la cura degli anziani: medici, infermieri, specialisti della terza età. La Liguria è infatti la regione più anziana d’Italia, con più di un cittadino su dieci che ha oltre ottant’anni.

Investire sul terziario

Genova sembra aver condensato in una sola zona vari problemi che attanagliano molte delle province italiane. Il primo è sicuramente la mancata transizione da un’economia manifatturiera a una basata soprattutto sui servizi. La transizione verso il settore terziario c’è stata, ma non grazie a un progressivo aumento delle competenze della popolazione e di maturità dell’economia, ma semplicemente perché, chiuse le fabbriche, i lavoratori si sono spostati verso occupazioni a basso valore aggiunto nei servizi.

Circa un quarto dei dipendenti in Italia lavora nella manifattura (i dati più aggiornati per settore sono del 2017), mentre quasi tutto il resto si occupa di professioni nel settore terziario. Il problema è che una parte consistente di questi lavoratori è occupata in ambiti come il commercio (2 milioni di lavoratori, il 17 per cento del totale dei dipendenti), nel trasporto e magazzinaggio o nei servizi di alloggio e ristorazione (1 milione ciascuno) e in altre attività a basso valore aggiunto. Solo 500mila persone (il 4 per cento dei dipendenti) lavorano nelle attività professionali, scientifiche e tecniche, di cui 50mila in attività legali (utili, ma non esattamente un volano per la crescita) e solo 22mila nell’ambito della ricerca e dello sviluppo.

Le province italiane hanno innanzitutto bisogno di lavoratori specializzati, ma anche di imprese che siano disposte ad assumerli. È vero che, per esempio, il tasso di laureati in materie tecnico-scientifico è basso, ma è anche vero che la struttura produttiva italiana, fatta soprattutto di piccole imprese poco innovative, è un freno rilevante. Non a caso, questa mancanza innesca una fuga di cervelli, sia verso l’estero che verso le poche città italiane con una popolazione in crescita.

Le infrastrutture

Un altro grande problema delle province italiane sono i collegamenti. L’epopea della Salerno-Reggio Calabria e l’assenza di collegamenti ferroviari rapidi tra il sud e il resto d’Italia ne sono sicuramente un esempio, ma è un problema che esiste anche in altre aree d’Italia. Genova, in questo senso, è un esempio lampante: Milano è vicina, ma molto meno di quanto potrebbe esserlo. La distanza tra Genova e Milano è identica a quella tra Torino e Milano, eppure ci vogliono almeno 40 minuti di treno in più per arrivarci. E non è solo questione di pianura contro collina: il tempo che si impiega in macchina tra Bolzano e Innsbruck, che richiede di attraversare un confine, oltre che le Alpi, è lo stesso che si impiega tra Milano e Genova, quando non c’è traffico.

I collegamenti non sono tutto, ma pesano molto: non a caso, le province in cui il calo demografico è stato inferiore sono anche quelle che sono meglio collegate da autostrade e alta velocità, perlomeno al nord.

Ricchezza e proprietà

Un ultimo fattore  è la concentrazione della ricchezza nelle mani di relativamente pochi cittadini, che rallenta l’intera crescita italiana, ma che diventa un problema ancora più grave nelle zone poco dinamiche dal punto di vista economico. Se la ricchezza è molto concentrata, infatti, le opportunità per chi non è privilegiato, magari già basse per i fattori citati sopra, scendono ai minimi termini. Questo vale sia per le diverse opportunità che dipendono dalla mole di risorse a disposizione, sia per le diverse condizioni abitative. 

La crisi immobiliare non riguarda solo città come Milano o Roma, ma anche zone che si stanno spopolando, come appunto Genova. Oggi la tassazione applicata agli immobili è la stessa sia che la casa sia sfitta, sia che sia affittata a qualcuno. Questo spinge molti proprietari, in città dove magari l’offerta supererebbe la domanda di immobili a non dare in affitto le case perché il canone risulterebbe troppo basso. Questo modo di agire, però, riduce le opportunità abitative per chi vorrebbe trasferirsi in queste città, inasprendo ancora di più la crisi demografica. I prezzi rimangono artificialmente alti e scende ancor più l’incentivo a trasferirsi in zone economicamente poco dinamiche. È il motivo per cui molti liguri preferiscono spostarsi a Milano per studiare o lavorare: costa di più, ma il minor prezzo pagato a Genova non compensa le differenze in termini di accesso ai servizi, alle infrastrutture e a un’istruzione di qualità che le città che non registrano un calo demografico possono offrire. Il caso di Genova è particolarmente grave, ma racchiude in sé molti dei difetti che attanagliano la provincia italiana. Per risolvere il problema del calo demografico, bisognerebbe partire da qui.

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