La Cina può fare a meno degli Usa, per questo Trump ha fatto dietrofront

Chi è uscito vincitore dall'incontro di giovedì scorso a Seoul tra Xi Jinping e Donald Trump? Il tycoon americano è ripartito sfoderando il solito repertorio di iperboli («straordinario», «enorme successo»); anche il ben più riservato Xi ha parlato di importanti passi avanti nel ridurre le tensioni commerciali. In realtà, si tratta solo di una tregua temporanea, volta a contenere gli effetti delle decisioni più dirompenti prese dai due paesi dall’aprile scorso, quando l’amministrazione aveva dato il via alla guerra commerciale con amici e avversari. L'accordo prevede la sospensione per un anno di alcune delle misure che i due paesi hanno preso durante l’escalation dei mesi scorsi. Gli Stati Uniti hanno ottenuto che la Cina rivedesse i controlli alle esportazioni delle terre rare, necessarie ai paesi occidentali per la produzione di moltissimi prodotti soprattutto nel campo delle tecnologie avanzate. La Cina ha anche accettato di riprendere gli acquisti di soja statunitense (prima della guerra commerciale ne assorbiva un quarto della produzione). Infine, Pechino ha promesso di essere accomodante su TikTok e di intensificare i controlli sui precursori chimici del fentanyl, un oppioide sintetico che ultimamente è diventato un flagello per gli Stati Uniti. In cambio, gli Stati Uniti hanno accettato di ridurre alcuni dazi legati proprio al fentanyl (il livello medio passa dal 57 al 47 per cento) e di attenuare le restrizioni al commercio di tecnologie sensibili (ad esempio i semiconduttori). La ritirata di Trump Tutto questo, lo ripetiamo, è temporaneo; è molto difficile al momento prevedere quale sarà l’evoluzione nei rapporti tra i due paesi. Quello che è tuttavia certo è che la strategia di Trump, di imporre accordi basati sui rapporti di forza, nel caso cinese non ha funzionato. Come scriveva il Diario Europeo due settimane fa, la Cina ha risposto colpo su colpo alle misure protezionistiche americane; come mostra proprio il caso delle terre rare, mentre la Cina può sia pure a fatica e con costi enormi, fare a meno degli Stati Uniti, per questi ultimi una guerra commerciale totale non sarebbe sostenibile. Da anni la Cina lavora da un lato per non dipendere dagli Stati Uniti per importazioni essenziali e dall’altro per diversificare i suoi mercati d’esportazione in modo da non essere più vulnerabile come prima a misure protezionistiche. La verità è che un nulla di fatto tra i due leader a Seoul sarebbe stato quasi impossibile da digerire per Trump; per la Cina, invece, pur essendo molto costoso, sarebbe stato gestibile. Insomma, rapporti di forza non sono quelli che Trump immaginava quando si è lanciato nella sua guerra commerciale, e questo fa capire quanto scriteriata sia stata la politica commerciale di Trump degli ultimi mesi. Prendiamo ancora le terre rare. Era ovvio che a un certo punto queste sarebbero state usate come arma dalla Cina. Se non fossero stati miopi ed esclusivamente concentrati su guadagni di breve periodo, Trump e i suoi consiglieri avrebbero dovuto cercare di rafforzare accordi commerciali e industriali con paesi che potessero sostituire le importazioni cinesi così le armi di Pechino. Alienarsi alleati storici e la gran parte dei paesi emergenti e in via di sviluppo ha indebolito gli Stati Uniti nel confronto con quello che oggi emerge come un concorrente ad armi pari. Gli Usa non possono vincere la guerra commerciale con la Cina, Trump lo sa Un nuovo ordine bipolare Insomma, l’incontro di Seoul certifica il fatto che siamo entrati in un nuovo ordine bipolare con due potenze egemoni e concorrenti di peso quasi uguale. Potenze che, peraltro, hanno debolezze strutturali che nei prossimi anni potranno pesare nel confronto. Il dominio degli Stati Uniti nei settori che definiranno il futuro, intelligenza artificiale, infrastrutture digitali e tecnologie verdi, oggi è minacciato; la rete di alleanze politiche e commerciali che costituiva la forza del paese durante la guerra fredda è in pezzi; infine, la polarizzazione politica, la progressiva trasformazione del paese in una plutocrazia limitano la capacità di elaborare strategie globali a lungo termine. Anche la Cina è per certi versi un gigante dai piedi d’argilla. La sua economia rimane profondamente dipendente dalle esportazioni e dagli investimenti. Sono almeno venti anni che i piani quinquennali indicano nel rilancio dei consumi la chiave per una crescita stabile, senza poi riuscire a mantenere la promessa. Sotto la scintillante carrozzeria della leadership nelle tecnologie di punta, dall’elettrico alla robotica, la crisi immobiliare, la debolezza della domanda interna e la disoccupazione giovanile mostrano un motore che non riesce a funzionare a pieni giri. Insomma, gli Stati Uniti non possono più guidare come una volta, ma la Cina non è ancora pronta a prendere il loro posto. Il risultato è un mondo in transizione, in cui l'incertezza diventa la nuova normalità. E l’Europa, in tutto questo? A breve termine possiamo respirare. La tregua di Seoul estende ad altri paesi l’accordo sulle terre rare, offrendo sollievo ai produttori europei. Il temporaneo allentamento delle tensioni dovrebbe stabilizzare anche le catene di approvvigionamento globali e i prezzi delle materie prime, sostenendo un’economia europea che continua a crescere troppo poco. Make America Small Again. I paradossi dell’economia trumpiana Autonomia strategica a tutto campo Ma c’è un’altra lezione da trarre. La Cina ha mostrato che se si hanno carte da giocare si possono costringere gli Stati Uniti alla ritirata. E l’Europa di carte da giocare ne ha molte: le nostre esportazioni di macchinari e beni intermedi sono cruciali per l’industria americana; gli Stati Uniti dipendono da noi per molti prodotti farmaceutici e vaccini; una parte sostanziale dell’enorme risparmio europeo ogni anno va a finanziare gli investimenti oltre oceano; infine, l’Europa è un mercato oggi imprescindibile per i servizi digitali degli Stati Uniti. L’Europa, insomma, avrebbe potuto rispondere alle minacce americane. Certo, sopportando dei costi di breve periodo come la Cina; ma sarebbe probabilmente riuscita a far rivenire Trump a più miti consigli. Invece, paesi europei divisi e senza strategia di lungo periodo, hanno mandato von der Leyen allo sbaraglio al vertice di Glasgow in luglio, e l’Europa ne è uscita più debole economicamente e soprattutto politicamente. Legare il nostro destino a un paese ormai imprevedibile e inaffidabile e con cui i nostri interessi non sono più allineati è ormai costoso e strategicamente rischioso. Anche impostare una relazione economica proficua con la Cina sarà difficile: Pechino ha ancora bisogno di avanzi commerciali per crescere e la sua sovraccapacità industriale minaccia l’industria europea L’autonomia strategica in questo contesto diventa un obiettivo molto più vasto della sola politica industriale per rafforzare le catene del valore e rilanciare la crescita e della produttività. Significa anche liberarsi dai vincoli di vecchie alleanze cui siamo rimasti fedeli solo noi e giocare le proprie carte per difendere i propri interessi negoziando da pari a pari certo con gli Stati Uniti ma anche con alti blocchi economici e commerciali. Il vero costo dell’accordo sui dazi: il disastro non è economico, ma politico