Tra i vari primati negativi attribuiti al nostro paese c’è anche quello, frequentemente richiamato, della percentuale di Neet, cioè di giovani in età tipicamente compresa tra i 15 e i 29 anni che non studiano (Education), non sono occupati (Employment) e non fanno formazione (Training). Prima della pandemia, tale percentuale era del 22,1 per cento in Italia e del 12,4 per cento nell’Ue.

Il termine Neet fece la sua prima comparsa nel 2002 in una ricerca sui ragazzi britannici di John Bynner e Samantha Parsons. Andando alla ricerca delle cause del fenomeno, Brynner e Parsons conclusero che alla sua origine c’era l’esclusione sociale; più precisamente le sfavorevoli condizioni della famiglia di origine (depressione, genitorialità precoce, alloggi inadeguati) nonché la mancanza di esperienze con il mercato del lavoro.

Chi sono i Neet?

Col trascorrere del tempo si è però affermata una narrativa dei Neet ben diversa. In Giappone sono stati assimilati ai reclusi sociali, noti anche in occidente come hikikomori. Nel gergo dei social sono spesso associati allo stereotipo dei neckbeard, un termine usato per indicare giovani asociali, con esperienze fallimentari e anche presuntuosi. Nella nostra opinione pubblica sono frequentemente rappresentati come sfaticati bamboccioni e – rovesciando completamente l’interpretazione di Brynner e Parsons – si giunge a considerarli come privilegiati che possono permettersi di oziare grazie alle floride condizioni economiche della famiglia di origine. Un caso di successo, da questo punto di vista, è il libro di Luca Ricolfi, La società signorile di massa, dove il prototipo del Neet è un giovane che vive in una famiglia con un reddito di 46mila euro e un patrimonio di 390mila euro e che grazie a ciò si può permettere di vivere senza lavorare.

In realtà, coloro che vengono collocati dalla rilevazione statistica tra i Neet costituiscono, sotto aspetti fondamentali, un insieme molto differenziato. E ciò conferma che quasi sempre all’interno di gruppi rappresentati come omogenei vi sono fortissime eterogeneità che è bene individuare, anche per disegnare politiche realmente efficaci.

Il dato più sorprendente è questo: ben il 43 per cento di coloro che vengono classificati come Neet in realtà lavora nel corso dell’anno, anche se spesso per poche settimane. Si tratta, cioè, di veri e propri disoccupati, in precedenza occupati in posizioni di lavoro precarie. L’apparente incongruenza si spiega con il fatto che nella rilevazione dei Neet si considera tale chi non ha lavorato nella settimana precedente la rilevazione stessa e, per chi ha lavori saltuari, è molto probabile essere intervistati nei periodi di non lavoro.

Per la nostra analisi abbiamo utilizzato il dataset dell’indagine It-Silc dell’Istat del 2017 incrociandolo con le storie lavorative degli intervistati desunte dagli archivi Inps. Anche se It-Silc non è il dataset per la stima ufficiale dei Neet, gli intervistati rispondono a una serie di domande su percorso di istruzione, ricerca di lavoro e condizione occupazionale, che consentono di misurare con precisione il fenomeno dei Neet.

Dai dati risulta, quindi, che poco meno della metà di chi è classificato come Neet è molto più semplicemente un precario con periodi di lavoro saltuari. Dunque, la condizione di Neet per molti è temporanea. Tale condizione, più correttamente, andrebbe considerata uno stato di disoccupazione dovuto alla precarietà, anche per evitare il paradosso che raggiunti i 29 anni, se continua l’esperienza lavorativa intermittente, si smette di essere Neet e si diventa “normali” disoccupati precari. Ma, tolti i precari, è lecito definire i restanti individui che non studiano e non lavorano (anche in un intero anno) come sfaticati bamboccioni? Fra i Neet che non hanno lavorato nel corso dell’anno, più della metà (il 57 per cento) dichiara di essere in cerca di lavoro e il 43 per cento, invece, di non cercarlo.

Questi ultimi, che, nei nostri dati, complessivamente rappresentano solo il 24,5 per cento di quelli che vengono definiti Neet, potrebbero comprendere i bamboccioni privilegiati di cui si diceva, ma non soltanto loro. Infatti potrebbero non cercare lavoro anche i giovani scoraggiati che hanno perso il lavoro e hanno smesso di cercarlo (un terzo del 24,5 per cento di cui sopra ha avuto esperienze lavorative passate) o non credono di riuscire a trovarlo, pur senza godere di condizioni familiari favorevoli. Circa la metà delle famiglie di questi potenziali bamboccioni privilegiati ha, in realtà, un reddito inferiore alla soglia di povertà relativa, mentre solo il 4,5 per cento si colloca, per reddito, nel 20 per cento più ricco della popolazione. Da qui si può desumere, con discreta attendibilità, che i bamboccioni privilegiati sono al più il 4,5 per cento del 24,5 per cento, cioè l’1,1 per cento dei Neet. Decisamente troppo poco per considerarli rappresentativi.

Guardando ai redditi delle famiglie dei Neet si scopre anche che il 30 per cento di coloro che hanno lavorato nel corso dell’anno vive in famiglie con redditi inferiori alla soglia della povertà e ciò rende piuttosto difficile che essi abbiano rinunciato volontariamente al lavoro.

I Neet, costituiscono un insieme eterogeneo che non è di certo ben rappresentato dallo stereotipo del bamboccione privilegiato. Il tratto prevalente sembra essere quello del disoccupato precario e ciò colloca il fenomeno principalmente nell’ambito delle difficoltà di occupazione piuttosto che di rifiuto del lavoro. Lungi dall’essere dei privilegiati, costoro vivono il disagio della mancanza di lavoro. E la rimozione delle cause di questo stato di cose, dal lato della domanda e dell’offerta di lavoro, dovrebbe occupare uno dei primi posti nell’agenda politica.

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