La Federal Reserve ha comunicato le proprie decisioni di politica monetaria; giovedì 14 è la volta della Bce. È quasi scontato che anche quest’ultima, come la Fed, lasci immutati i tassi di interesse prendendo atto che l’inflazione sta scendendo anche più rapidamente del previsto.

Il consenso è che entrambe ribadiranno l’esigenza di mantenere i tassi elevati ancora a lungo, fino a quando non ci sarà evidenza che la crescita dei prezzi si è stabilizzata intorno all’obiettivo del 2 per cento; e l’eventuale riduzione dipenderà dai dati macroeconomici che man mano saranno resi disponibili.

Più che sul contenuto delle decisioni, l’attenzione sarà dunque concentrata sul linguaggio usato nella conferenza stampa che segue le riunioni dei banchieri centrali. Ciononostante, i mercati credono che ci sarà una prima riduzione dei tassi già a marzo e che la discesa continuerà nel corso del prossimo anno. Stesse previsioni, anche se più contenute, quelle degli economisti.

I dubbi dei mercati

Lo scetticismo del mercato è ragionevole. In una fase di contrazione dell’inflazione, come quella attuale, la riduzione dei tassi dovrebbe essere vista come lo strumento per mantenere costanti i tassi reali, maggiormente rilevanti per l’attività economica, onde evitare un aumento indesiderato nel grado di restrizione.

Le banche centrali hanno poi dimostrato di non avere un valido modello per l’inflazione, non avendone previsto l’impennata; alla stessa stregua è lecito dubitare che sappiano prevedere il movimento in senso opposto. Non si è tenuto conto dell’inflazione da margini, ovvero della capacità di molte imprese di aumentare i listini per la forte domanda causata dalla fine della pandemia; ora non si tiene conto dell’effetto opposto dovuto alla frenata dei consumi. Né si tiene conto della Cina, che esporta deflazione nel mondo riducendo la domanda di beni occidentali, materie prime ed energia.

Maggiormente critica è la scarsa comprensione delle recenti dinamiche del mercato del lavoro. L’analisi economica prevalente fa riferimento alla curva di Phillips, la relazione storica che esisterebbe tra disoccupazione, salari e inflazione: per indurre una riduzione nella crescita dei prezzi la curva prevede che si debba comprimere la domanda, inducendo così una contrazione della produzione, dell’occupazione, e quindi della crescita salariale.

Questa relazione spiega perché le banche centrali considerino la crescita dei salari, che rimane superiore all’inflazione sia negli Usa che in Europa, unitamente alla bassa disoccupazione, evidenza di spinte inflazionistiche latenti. Non si tiene però conto delle profonde trasformazioni del mercato del lavoro causate dalla pandemia.

Negli Usa il Covid ha distrutto di 22 milioni di posti di lavoro, ma al tempo stessa è crollato il tasso di partecipazione, vale a dire in molti hanno preferito abbandonare il mercato del lavoro e la ricerca di un’occupazione. Da allora però sono stati recuperati 27 milioni di posti, mentre il tasso di partecipazione, pur risalendo rimane al di sotto del 2019.

Per riportare nel mercato del lavoro e attrarre occupati in un numero storicamente così elevato, è ragionevole pensare che le imprese abbiano dovuto garantire aumenti salariali, che però hanno natura straordinaria, destinati a rientrare nel tempo e quindi alla lunga non inflazionistici.

Analisi obsolete

Nonostante la grande diversità con l’economia americana, una simile dinamica l’abbiamo vissuta anche noi. In Italia il Covid ha distrutto 1,1 milioni di posti di lavoro, ma a novembre ne erano stati creati 1,6 milioni, mezzo milione in più che nel 2019. Il numero di inattivi, ovvero non occupati ma che non cercano un’occupazione, è aumentato di 1,2 milioni col Covid; ma da allora si è ridotto di 2: ovvero 800 mila inattivi in meno rispetto al 2019, che hanno deciso di “rientrare” nel mercato del lavoro. Una dinamica che non ha ancora una spiegazione comunemente accettata, ma che rende obsolete le analisi sulla base della curva di Phillips; e la crescita salariale, unitamente al tasso di disoccupazione, un indicatore poco affidabile dell’inflazione futura.

Gli interrogativi senza risposta non finiscono qui. Bce e Fed si dichiarano che la riduzione dei tassi dipenderà dall’andamento futuro dell’inflazione. Ma quale inflazione? Gli individui guardano al costo della vita, mentre le banche centrali considerano rilevante il dato core depurato del costo dell’energia e dei beni alimentari, anche se queste due voci sono una delle maggiori componenti del bilancio familiare. Il dato core dipende a sua volta dai prezzi dei beni durevoli, e dei servizi: in questo momento però i primi stanno addirittura scendendo (-2 per cento negli USA) per via del calo della domanda, mentre i secondi rallentano molto più lentamente perché rivisti infrequentemente, basti pensare al costo per la sanità, le polizze assicurative o la casa.

Se la crescita dell’inflazione rimanesse sopra il 2 per cento, ma solo perché i prezzi di una frazione di servizi seguono una dinamica più lenta, cosa faranno le banche centrali? Non taglieranno i tassi, rischiando la recessione?

I rischi per l’Italia

La dimensione dei bilanci di Fed e Bce è cresciuta a dismisura per via dei massicci acquisti di titoli (QE, quantitative easing). Adesso sorge il problema opposto, quello di ridurre la quantità di titoli in portafoglio (QT, quantitative tightening) : la Fed ha già cominciato a farlo, ed è molto probabile che la Bce affronti il problema nelle prossime riunioni. Ma il QT per sua natura riduce la liquidità e agisce quindi in senso restrittivo: come può essere coniugato con una riduzione dei tassi?

La politica di dipendenza dai dati seguito dalle banche centrali aumenta la volatilità dei mercati perché ad ogni nuovo dato gli investitori reagiscono cercando di anticipare come quel dato influenzerà le decisioni di politica monetaria.

C’è infine il rischio che tassi elevati troppo a lungo causino problemi ai paesi con un elevato debito pubblico, come l’Italia, ma anche alle tante aziende che a partire dal 2025 dovranno rifinanziare una quantità di debito superiore di tre volte rispetto a quanto in scadenza quest’anno. Troppi interrogativi che rimangono senza risposta.

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