Nel clima di campagna elettorale che ci accompagnerà fino al voto europeo del prossimo giugno, non c’è niente di meglio che parlare di tasse per guadagnare facile consenso e confermare antiche alleanze con i ceti che sull’evasione fiscale fondano la loro ricchezza.

Giorgia Meloni lo sa bene, del resto è proprio lei che il 26 maggio dell’anno scorso, alla vigilia dei ballottaggi per l’elezione dei sindaci in decine di grandi città, se ne uscì con la frase sulle «tasse come pizzo di Stato per il piccolo commerciante».

Mercoledì invece la presidente del Consiglio non si è lasciata sfuggire l’occasione di un convegno alla Camera per ribadire le parole d’ordine governative sul fisco. Un fisco, ha scandito Meloni, che non deve essere «vessatorio», ma espressione di «uno stato giusto, comprensivo, disponibile che non viene più percepito come un avversario».

Fisco amico

Uno slogan tira l’altro e la premier, già che c’era, ha voluto rassicurare la platea affermando che le tasse non sono bellissime “non lo penso e non lo dirò mai”, aggrappandosi a un’infelice uscita dell’allora ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa (correva l’anno 2007, governo Prodi). Nella nuova Italia plasmata dal governo Meloni le famiglie non saranno più oppresse con «regole astruse» e le aziende non faranno le spese di «sanzioni vessatorie».

Sono questi gli obiettivi dichiarati della riforma ideata e gestita dal viceministro dell’economia Maurizio Leo, frutto, secondo Meloni, di una «scommessa culturale» da parte dei partiti di maggioranza. Ecco, in breve, lo spartito suonato dal governo, ma la musica cambia se dalle parole d’ordine si passa all’esame concreto dei provvedimenti. Allora diventa chiaro dove porta il nuovo fisco disegnato da Leo con la legge delega che decreto dopo decreto viene approvata dall’esecutivo.

Partiamo dalla fine, cioè dalle nuove norme sulla riscossione licenziate dal Consiglio dei ministri lunedì scorso. La riforma punta a svuotare il gigantesco magazzino dei crediti fiscali non riscossi, le famigerate cartelle, un magazzino che ha toccato i 1.200 miliardi di euro nonostante le ripetute rottamazioni che secondo Matteo Salvini avrebbero dovuto arginare il problema.

Adesso il governo cambia strategia e decide che le somme che l’Agenzia delle entrate non è ancora riuscita a incassare dopo cinque anni saranno restituite al creditore, che oltre al fisco possono essere, per esempio, anche l’Inps o comuni.

Toccherà a questi enti provvedere in proprio alla riscossione. Ci sono forti dubbi che i creditori saranno in grado di recuperare il dovuto quando vedranno tornare indietro i crediti che s suo tempo avevano affidato all’Agenzia delle entrate.

Magazzino al macero

Quanto detto vale per il futuro. Per smaltire il gigantesco arretrato verrà invece istituita una commissione nominata dal Mef incaricata di valutare quanto si potrà recuperare e come. Il fatto è che più del 50 per cento del magazzino crediti rimanda a cartelle emesse prima del 2016. Inoltre, secondo le stime della stessa Agenzia delle entrate, solo una trentina di miliardi sono ancora effettivamente recuperabili, perché nel frattempo i creditori sono falliti, morti, nullatenenti o sono già stati oggetto di un’azione esecutiva. Quindi quelle cartelle, del valore di quasi 600 miliardi, sono destinate a finire al macero, ma d’altra parte questo era quasi certo anche prima della riforma governativa.

La partita si gioca sui crediti più recenti, quelle posteriori al 2016. E qui ci sono quasi 70 miliardi su circa 550 giudicati recuperabili. Su questo punto poco cambia rispetto al passato per effetto della riforma Leo. Per ottenere risultati concreti e diminuire l’evasione andrebbero potenziate le capacità di analisi a disposizione del governo, che dovrebbe attingere a dati aggiornati su redditi e patrimonio dei debitori.

Italia come il Kenya

Questo vale in generale per tutta l’attività riscossione, che per esempio, diventerebbe molto più efficace se l’Agenzia avesse la possibilità di accedere ai conti correnti dei contribuenti morosi prima di procedere con un pignoramento. Ci sono problemi di privacy da risolvere prima che la misura, inserita nella legge di Bilancio, diventi effettiva e sul punto si attende una valutazione del Garante. Non è solo una questione di privacy, però, visto che dentro la maggioranza la Lega si è sempre dichiarata contraria all’accesso del fisco nei conti bancari.

È tutta la macchina della riscossione, però, che da sempre funziona come un carrozzone lento e inefficiente. Non per niente, secondo le statistiche dell’Ocse, l’Italia è il fanalino di coda nella graduatoria che misura il rapporto tra i crediti fiscali totali e quelli che ancora si possono riscuotere. Siamo al 5 per cento, la metà rispetto a Malta, mentre paesi come Belgio, Regno Unito, Spagna e Germania viaggiano a oltre l’80 per cento. Del resto, i debiti non riscossi dal fisco nostrano valgono più del doppio rispetto al gettito annuale di tasse e imposte varie. Solo la Grecia è meno efficiente. La riforma varata dal governo si occupa però solo marginalmente della macchina della riscossione, creando così le premesse perché le cartelle continuino ad accumularsi.

In compenso con l’ultimo decreto attuativo della legge delega i contribuenti “in difficoltà” avranno tempo fino a 10 anni per spalmare il loro debito in 120 comode rate mensili. Questo è il fisco amico predicato da Meloni. Questione di priorità. E di voti.

© Riproduzione riservata