Il sottosegretario a cui Giorgia Meloni ha affidato la delega alle telecomunicazioni ieri ha fatto affondare il titolo della principale società di telecomunicazioni del paese, con dichiarazioni a borse aperte che fanno pensare che l’esecutivo, dopo aver stoppato il progetto della rete unica, non abbia un piano alternativo.

Il ministero delle Imprese e del Made in Italy aveva cercato di gestire il congelamento o meglio affossamento del progetto di una rete unica per la fibra, cioè la partita politico economica più importante del momento e a cui è appeso il destino degli oltre 20mila lavoratori di Tim, con dichiarazioni cesellate. L’altro ieri una nota, a doppia firma del ministro Adolfo Urso e di Butti, spiegava che il governo si prendeva altro tempo fino al 31 dicembre per cercare una soluzione invitando tutti i protagonisti della vicenda, Tim, Cdp, Open Fiber a un tavolo.

La guerra della rete unica: tra Tim, Open Fiber e Bisignani

Forma e sostanza

La sostanza di quel comunicato era che il progetto studiato finora di una società della rete in capo a Cdp Equity era tra il congelato e la carta straccia e che la presentazione dell’offerta non vincolante a Tim, i cui termini scadevano ieri, non doveva essere presentata. La forma, però, seguiva un certo understatement: cercheremo di trovare una soluzione nel rispetto degli interessi di tutti gli stakeholder. Cdp Equity, Macquarie e Open Fiber hanno risposto ieri con un comunicato congiunto dello stesso tenore: considerata la rilevanza dell’operazione rete e via dicendo, le società «ritengono opportuno soprassedere alle scadenze previste dal Memorandum of Understanding relativo al progetto di integrazione tra le reti di TIM e Open Fiber sottoscritto in data 29 maggio 2022 anche con Tim e Kkr, e manifestano sin d’ora piena disponibilità a partecipare al suddetto tavolo di lavoro». Cioè il governo ci impone di non proseguire e noi facciamo ciò che ci viene detto. Tutta la cautela è crollata nel momento in cui Butti ha preso la parola al convegno 5G Italy, organizzato dalla rete di università Cnit. E ha fatto piazza pulita delle due possibili alternative circolate finora, la prima più concreta ma già affossata dal governo, la seconda solo chiacchierata e legata proprio ai piani ora smentiti del sottosegretario: «Un’opa totalitaria su Tim è solo fantasia».

Il nodo Bolloré

Butti se l’è presa prima di tutto con Vivendi, l’azionista di maggioranza di Tim, che di fronte alla possibilità che la Cassa depositi e prestiti acquisisse la parte più rilevante dell’azienda, ha giocato al massimo rialzo ipotizzando un valore della rete molto alto rispetto alle valutazioni dei possibili acquirenti. «Il governo ha posto una serie di domande sul valore della rete, qualcuno dice 31 miliardi, qualcuno 24, qualcuno 15 miliardi. Allora chi fa il valore? Lo fa advisor, lo fanno azionisti? Se lo fanno azionisti, lo dico agli amici della stampa, allora facciamo 100!», ha dichiarato Butti. Per i sostenitori del lavoro fatto finora – un memorandum di understanding firmato a maggio di quest’anno dopo aver corretto quello firmato sotto il governo giallo rosso che dava incredibilmente a Tim la guida della società– l’offerta non vincolante avrebbe almeno fatto scoperto le carte in tavola e fatto eventualmente partire i negoziati. Il problema, del resto, si sarebbe posto in maniera anche maggiore nel momento in cui il governo avesse proceduto a una opa totalitaria su Tim, che chi ha visto le bozze del piano Minerva sostiene fosse la alternativa ipotizzata al progetto di Cdp e che ora Butti nega di aver mai valutato. Quella strada avrebbe avuto problemi di antitrust ancora maggiori, tanto che nelle scorse settimane si discuteva della possibilità di un intervento degli ormai soliti fondi di investimento per non creare problemi regolatori di Cdp. Soprattutto l’ipotesi che ieri Butti ha accantonato, avrebbe portato i soldi e tanti direttamente nelle tasche dell’azionista francese, mentre con il progetto di Cdp i fondi sarebbero andati formalmente alla società di servizi Tim scorporata da quella della rete e alleggerita di buona parte di dipendenti e debito.

Il problema industriale

Facendo piazza pulita di tutto questo, resta solo l’impegno di trovare una soluzione per gennaio. Ieri intanto il cda di Tim ha cooptato come consigliere Giulio Gallazzi, già consigliere della Mediaset for Europe di Berlusconi. E sempre allo stesso convengo l’amministratore delegato di Tim Pietro Labriola ha ammesso che nel comparto telecomunicazioni i soldi per gli investimenti non ci sono.

Servirebbe certo una politica industriale per il settore, ma finché il problema di Tim e del suo debito non si risolve è difficile che si possa studiare una politica industriale. Appesi all’ex monopolista privatizzato a debito e trattato comunque da soggetto pubblico, ci sono migliaia di lavoratori e le entrate di tutto l’indotto, dai fornitori tecnologici alle ditte di installazione della rete, che servono anche i competitor. Al punto, che ci sono aziende concorrenti che ammettono in privato di essere disposte anche a pagare un contributo a favore di Tim, adottando in sostanza una soluzione di sistema pari a quelle molte volte adottate per il settore bancario pur di superare l’ostacolo.. Come se non bastasse sia Open Fiber che Tim h obiettivi di connessione da rispettare e più si sposta in là l’orizzonte della rete unica, più le reti rischiano di essere un doppione e quindi nell’ottica della rete pubblica un investimento non giustificato. Con questo reset è difficile che si arrivi a un’alternativa concreta, con analisi finanziarie e industriali dettagliate, prima del 2024. Ieri sono bastate le parole di Butti per affossare il titolo di oltre il cinque per cento e la domanda a cui nessuno sa dare risposta è: Tim può reggere fino ad allora?

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