Il ministro delle imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha detto ieri quello che il governo Draghi non aveva avuto il coraggio di dire. Cioè che se mettiamo un altro miliardo di euro nell’ex Ilva, come accordato ad agosto dal governo precedente su richiesta dell’azienda in crisi di liquidità, bisogna chiedere «condizionalità». Cioè non possiamo continuare a spendere soldi e permettere ad ArcelorMittal attuale azionista di maggioranza di Acciaierie d’Italia, di prendere decisioni come la sospensione delle attività di 145 aziende dell’indotto - duemila persone lasciate a casa dall’oggi al domani - annunciata unilateralmente due giorni fa, dopo la cassa integrazione altrettanto unilaterale di marzo e quella straordinaria di giugno. Al momento si contano 2.500 cassintegrati di Acciaierie, 1700 dell’Ilva in amministrazione straordinaria, la società che affitta gli impianti ad ArcelorMittal e infine i 2mila dell’indotto a casa, per un totale di più di 6mila lavoratori nel limbo.

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«Pozzo senza fondo»

La scelta del governo rischia, però, di arrivare fuori tempo massimo. Non c’è liquidità, non c’è l’accesso ai fidi bancari, non ci sono i soldi per pagare le bollette del gas, come ha ammesso il presidente Franco Bernabé, ora non ci sono più nemmeno i pagamenti e le forniture per le imprese che lavorano attorno alla città dell’acciaio ormai spopolata. Michele Emiliano il presidente della regione Puglia che ieri ha incontrato Urso e la ministra del Lavoro Marina Calderone ha detto la verità più amara: «Quel miliardo rischia di finire in un pozzo senza fondo». Urso ha fatto intendere che il governo vuole avere almeno più voce in capitolo nel decidere quanto debba essere profondo il pozzo, ma non è chiaro se le sue dichiarazioni avranno conseguenze concrete. A chi gli chiedeva se intendesse anticipare l’aumento della quota di capitale di Invitalia in Acciaierie d’Italia al sessanta per cento, al momento previsto per il 2024, il ministro ha risposto dicendo che non si può decidere tutto in pochi giorni e bisogna valutare diversi fattori. Se si dovesse valutare il fattore economico, lo stato dovrebbe tenersi alla larga dall’ex Ilva, ma ormai la situazione dei lavoratori è disperata.

Tra i fattori in valutazione ci sarà sicuramente il comportamento del consiglio di amministrazione di Acciaierie d’Italia, a cui il ministro con una nota durissima diffusa in mattinata ha chiesto «concrete risposte per l’indotto e per i lavoratori» dopo una decisione annunciata con modalità «assolutamente inaccettabili», anche perché «nulla era stato preannunciato negli incontri (dedicati soprattutto all’approvvigionamento di gas, ndr) che lo stesso ministro aveva avuto nei giorni scorsi con Ceo e Presidente di Acciaierie d’Italia».

Anche i sindacati dei metalmeccanici, Fim, Fiom e Uilm, avevano chiesto da giorni un incontro urgente al nuovo governo ma non si aspettavano che nel frattempo la società avrebbe inviato alle aziende dell’indotto quello che il segretario Fiom, Michele De Palma, definisce «un editto». Le domande dei lavoratori sono da mesi le stesse: garantire gli interventi di bonifica ambientale in ritardo, e la manutenzione ordinaria e straordinaria, che più viene trascurata più rende pericolosi gli impianti, dove nell’abbandono si accumulano incidenti. Sono anche tutti convinti che la proroga al 2024 dell’ingresso dello stato come azionista di maggioranza sia stato un errore: «L’ho detto anche all’incontro con i ministri», dice il segretario Fiom, «stiamo assistendo all’eutanasia dell’ex Ilva e va fermata. L’azienda rifiuta ogni interlocuzione, a qualsiasi livello».

La prima intesa firmata nel 2020 prevedeva l’aumento della partecipazione dello stato nel capitale di Acciaierie d’Italia al 60 per cento il 31 maggio del 2022. Poi proprio al limite di quella data, era stato annunciato uno slittamento di due anni, al 2024. Nel frattempo l’azienda avrebbe dovuto completare le prescrizioni ambientali che sulla carta dovrebbero rendere più facile il dissequestro degli impianti che ormai dura da dieci anni. Per lo stato l’investimento nell’acciaieria avvitata ormai in una crisi da cui è difficile uscire e con gli impianti sotto sequestro è ovviamente problematico: insomma, il rinvio era stato considerata una via utile all’esecutivo. Come succede spesso in Italia, però, il fatto che il capitale sia per la maggioranza privato non cambia il risultato: l’azienda infatti ha bussato comunque alle porte del governo per ottenere fondi.

Tutte insieme, le sigle metalmeccaniche, hanno proclamato quattro ore di sciopero per lunedì e per una volta hanno dalla loro anche la Confindustria che vede il rischio della desertificazione di tutta l’area produttiva. Ieri solo 40 imprese dell’indotto di Taranto hanno valicato l’ingresso dell’impianto siderurgico, una città parallela sempre più abbandonata. Rocco Palombella, segretario della Uilm, ricorda che ormai ci sono solo due altiforni funzionanti, gli impianti di rifinitura sono fermi. «L’azienda aveva garantito la produzione di poco meno di sei milioni di tonnellate di acciaio nel 2022: secondo le informazioni che abbiamo e che abbiamo condiviso con il governo siamo a 3 milioni», dice De Palma.

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Per il ministro Urso riequilibrare la governance servirebbe a fare «in modo che davvero ci sia una risposta rispetto agli impegni che la stessa azienda ha preso e secondo le scadenze date nei precedenti accordi». La minaccia però vale poco se è stato lo stesso azionista pubblico a titubare nel farsi carico dell’acciaieria avvitata in una crisi di cui è difficile vedere la fine. Una volta acquisita la guida della società, i problemi restano gli sessi: senza un progetto chiaro, Invitalia rischia di trovarsi a gestire la stessa eutanasia.

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