Alla vigilia pochi si aspettavano che i ministri dell’Economia riuniti a Bruxelles per l’Eurogruppo riuscissero davvero a trovare la quadra sulla riforma del Patto di stabilità. Troppo distanti le posizioni di partenza tra il fronte dei frugali, guidato dalla Germania, con l’Olanda come utile ruota di scorta, e il gruppone dei Paesi ad alto debito, di cui Italia e Francia si dividono il poco invidiabile primato, considerando gli Stati a maggior peso politico. E infatti l’accordo ancora non c’è. Le diplomazie dovranno lavorare ancora molto prima che i governi possano trovare una versione del Patto che vada bene a tutti.

La versione di Giorgetti

Tirando le somme, però, dopo ventiquattr’ore di intensi negoziati, tutte le delegazioni portano a casa qualcosa da rivendere come un successo alle rispettive opinioni pubbliche. È il caso di Giancarlo Giorgetti, che ha bellicosamente affrontato la trattativa minacciando il veto dell’Italia in caso di proposte contrarie all’interesse nazionale e al termine del vertice ha sottolineato che c’è stato da parte di tutti il «riconoscimento del fatto che non siamo in una situazione normale, c'è una guerra in Europa». Per poi aggiungere che le «nuove regole fiscali devono essere coerenti con gli obiettivi definiti a livello europeo, in particolare con le sfide sul cambiamento climatico e con riferimento particolare alla difesa».

Tradotto, significa che Roma si aspetta che dal calcolo della correzione dei conti per rientrare nei limiti di deficit e debito vengano escluse alcune categorie di investimenti, per esempio quelli destinati alla transizione verde e digitale. Su quest’ultimo punto Giorgetti ha raccolto il sostegno del francese Bruno le Maire, prontissimo a esternare la sua soddisfazione, già nella prima mattinata di venerdì, perché l’accordo (quello che verrà, forse, ndr) «riconoscerà l’importanza degli investimenti e delle riforme».

Il compromesso possibile

A quanto si è appreso da fonti non ufficiali al termine del vertice, il punto di partenza per la continuazione del negoziato è un documento sottoscritto da Francia, Italia, Germania e Spagna, cui spetta la presidenza di turno della Ue, che fissa i termini di un auspicato compromesso. Nessuno si nasconde, però, che il varo di una nuova disciplina finanziaria per i conti pubblici dei 27 Paesi Ue costerà ancora tempo e fatica.

Il prossimo passo del negoziato è in calendario la prossima settimana, quando i capi di governo si incontreranno a Bruxelles il 14 e 15 dicembre per il Consiglio europeo. E non è da escludere che venga convocato anche un vertice Ecofin straordinario prima della fine dell’anno, come ha ipotizzato la vicepremier spagnola Nadia Calvino. Va ricordato che senza un accordo sulla riforma, a partire dal primo gennaio dovrebbe tornare in vigore il vecchio Patto di stabilità. Un passo indietro che, almeno a parole, tutti i governi vorrebbero evitare.

L’esito finale del negoziato è stato fin qui fortemente condizionato dalla posizione della Germania. Il ministro delle Finanze tedesco, Christian Lindner, non ha esitato a mostrare i muscoli ribadendo quanto già dichiarato nelle scorse settimane. «I deficit eccessivi vanno ridotti, non giustificati», ha detto. I toni non esattamente inclini al compromesso sono in parte da spiegare con le difficoltà interne del governo di Berlino, che non riuscirà ad approvare entro l’anno il bilancio federale per il 2024. Lindner, leader dei liberali dell’Fdp in caduta libera nei sondaggi, deve quindi mostrarsi risoluto agli occhi dei suoi elettori almeno sul fronte europeo. Detto questo, con il suo 66 per cento di rapporto debito/pil e il deficit al 2,2 per cento, Berlino può permettersi di puntare i piedi in sede negoziale nei confronti di partner come l’Italia con conti pubblici ben più problematici. Roma è intorno al 140 per cento nel debito/pil e a fine anno sarà al 5,3 per cento per il deficit.

Lo scoglio del Mes

Quest’ultimo round di trattative ha però aperto un varco importante, su cui è possibile imbastire l’intesa. Resta ferma l’ipotesi inziale, cioè un calo annuo dello 0,5 per cento del deficit per i Paesi come l’Italia che sforano il limite del 3 per cento. A Bruxelles però ha preso forza la posizione dei governi che premono perché nel percorso di aggiustamento si tenga conto della spesa per interessi sul debito, che è lievitata per via dell’aumento dei tassi. Una norma di questo tipo sarebbe molto apprezzata dall’Italia che tra il 2023 e il 2026 vedrà aumentare gli oneri sul debito pubblico dal 3,8 al 4,6 per cento del pil.

Come detto, la strada per passare dalle bozze di compromesso a un accordo condiviso è ancora lunga. Per Roma, che questo venerdì ha ottenuto anche il via libera dell’Ecofin alla revisione del Pnrr, resta lo scoglio del Mes, il meccanismo europeo salva-stati, che nell’ultima versione introduce un paracadute per i crack bancari. L’Italia è l’unico tra i 27 membri della Ue a non aver ancora ratificato l’accordo, per effetto soprattutto dell’ostilità di Fratelli d’Italia e soprattutto della Lega. Questo fatto contribuisce ad alimentare la diffidenza dei paesi partner verso l’esecutivo di Giorgia Meloni. “Decide la Camera dei deputati. Il 14 dicembre andiamo con la conferenza dei capigruppo per fissare la discussione”, ha risposto questo venerdì Giorgetti a una domanda sul Mes. Si vedrà.

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