Tre firme di peso per chiedere il via libera al grande business degli stadi privati. A firmarla, la trimurti dello sport italiano: Giovanni Malagò, presidente del Coni, Gabriele Gravina, presidente della Figc, e Paolo Dal Pino, presidente della Lega di Serie B. Tre soggetti che se li chiudeste in uno stanzino otterreste il perfetto appeasement.

E non già perché vadano d’amore e d’accordo, ma perché ciascuno non saprebbe a chi degli altri due tirare per primo una legnata sulle gengive. Eppure i tre hanno trovato modo di mettere la firma in calce a una lettera indirizzata al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e ai ministri dell’Economia, Roberto Gualtieri, dello Sport, Vincenzo Spadafora, e dei Beni culturali, Dario Franceschini.

Un appello 

Datata 19 dicembre, la missiva contiene un appello a far ripartire l’economia del mattone da stadio, con lo scopo di rilanciare non soltanto il movimento calcistico italiano ma anche un pezzo dell’economia del paese. La lettera sciorina gli argomenti soliti: l’obsolescenza degli stadi, la burocrazia italiana che sarebbe uno svantaggio competitivo rispetto agli altri paesi, la prospettiva di un’età dell’oro che potrebbe aprirsi con l’inaugurazione di una stadium economy.

Ma poi anche tanto altro. Affermazioni come «non possiamo più aspettare», richieste anche sfrontate come quella per ottenere «disincentivi e sanzioni per denunce penali contro l’iter che siano meramente calunniose e strumentali» (ciò che sarebbe l’anticamera per disincentivare le denunce tout court), o la «definizione dell’onere delle amministrazioni e degli enti pubblici di giustificare e motivare dissenso dei progetti presentati adducibile solamente a cause verificabili, eliminando la necessità di giustificare l’assenso ai progetti». Sono condizioni che assegnerebbero alla stadium economy un regime speciale.

Che probabilità hanno di essere accolte, le richieste dei tre? Nell’attesa di scoprirlo, meglio concentrarsi sui numeri che dovrebbero sostenere e legittimare la stadium economy.

I maghi dei numeri

I numeri esposti dal trio Malagò-Gravina-Dal Pino parlano di un investimento in nuovi stadi da 4,5 miliardi di euro in 10 anni, della creazione di 25 mila posti di lavoro e di un gettito fiscale da 3,1 miliardi di euro, tutti dati che «favoriranno l’economia reale». Già, l’economia reale. Quella che serve anche a misurare lo scarto fra le cifre degli studi di fattibilità e la realtà dei fatti quando le opere d’impiantistica sportiva vengono completate. Sempre che vengano completate.

Per esempio, sarebbe carino che uno dei firmatari della lettera, il presidente del comitato olimpico Giovanni Malagò, ci dica cosa prevedevano in termini di benefici economici gli studi di fattibilità della Città dello Sport di Tor Vergata e di tutte le altre opere rimaste irrealizzate ma pianificate per i Mondiali romani di nuoto del 2009. Mondiali del cui comitato organizzatore Malagò era presidente. A metterla sul piano dei benefici per il pubblico e per la collettività, la stadium economy è stata quasi ovunque un sanguinoso fallimento. E dovremmo saperlo meglio di chiunque altro, avendo aperto la strada coi Mondiali di Italia ’90.

A certificarlo sono gli studi che valutano i risultati a qualche anno di distanza dall’entrata dei nuovi impianti a regime. Gli studi di fattualità, non di fattibilità. Quali i benefici dei nuovi impianti per le economie territoriali, secondo tali studi? Risposta: se tutto va bene si fa 0-0. Così è, giusto per citare solo alcuni casi, per i Mondiali di Germania 2006, per gli Europei di Polonia-Ucraina del 2012 e di Francia 2016. Meglio tacere a proposito delle cattedrali nel deserto lasciate dagli Europei di Portogallo 2004 e dai Mondiali di Sud Africa 2010.

Viva i privati

Rispetto alle cifre appena citate si potrà obiettare che gli esempi passati in rassegna riguardino quasi esclusivamente impianti finanziati con denaro pubblico e in vista di grandi manifestazioni sportive, mentre il piano sponsorizzato da Malagò-Gravina-Dal Pino riguarda stadi che dovrebbero essere di proprietà dei club. Guardiamo allora all’esempio nordamericano, quello da prendere come riferimento, anche perché si tratta di un’esperienza di stadium economy più antica e dunque maggiormente suffragata dagli studi.

L’esperienza nordamericana ci consegna due verità: 1) che non esistono gli impianti sportivi privati a costo zero per la collettività; 2) che il ritorno per il territorio, in termini economici e occupazionali, è zero virgola. Per quanto riguarda il finanziamento dei nuovi impianti, gli studi raccontano che un modo per farne pagare i costi ai contribuenti locali si trova sempre e anche in presenza di referendum dall’esito contrario.

Quanto ai ritorni economici e occupazionali, viene espressa una verità evidente anche a uno studente di Ragioneria: che le economie locali sono sistemi a somma zero, e che le risorse drenate da una parte sono risorse perse da una o più altre parti. In breve: il numero di addetti e i ricavi collegati al nuovo impianto corrispondono in misura più o meno equivalente (se non inferiore) al numero di addetti e ai ricavi persi dagli esercizi che fanno i conti con questo nuovo concorrente di grandi dimensioni. È l’effetto ipermercato trasportato di peso nella stadium economy. Un’economia che è un affare soltanto per i privati. E quanto al gettito fiscale e alla mitica “economia reale”, c’è da tenere in conto quanto entrambi dovranno andare a ristorare con misure di protezione e ammortizzazione i posti di lavoro e le attività andate disperse. 

Quali nuovi stadi?

Se l’Italia è indietro nella stadium economy i motivi sono diversi e non esclusivamente dipendenti dalle carenze legislative e di sistema.

C’è innanzitutto un dato: gli stadi si svuotano e non soltanto perché sono obsoleti. Piuttosto bisogna chiedersi se gli italiani abbiano ancora voglia di stadio, e quanta ne conservino dopo la chiusura forzata da pandemia. Su questo piano i dati sono spietati. Le ricerche sulla fan attendance (la presenza del pubblico negli stadi) presentano cifre che probabilmente la Trimurti dirigenziale non conosce o fa finta di non vedere. Quelle sulle 5 principali leghe europee (Premier League inglese, Liga spagnola, Bundesliga tedesca, Serie A e Ligue 1 francese), ultimo dato disponibile relativo alla stagione 2017-18, sono desolanti: la Serie A è la peggiore, con un tasso di riempimento degli spalti del 63,24 per cento (Premier League 95,20 per cento, Bundesliga 91,51 per cento, Liga 69,84 per cento, Ligue 1 68,33 per cento).

E se si passa alle performance per società, si scopre che la prima delle italiane stenta a entrare fra le prime 30: è la Juventus, che segna un tasso di riempimento del 93,91 per cento. Inoltre, 5 società italiane sono fra le 10 peggio piazzate, col Chievo Verona a chiudere la graduatoria (37,31 per cento). I numeri sono anche peggiori se si guarda al rapporto dell’European Football Leagues (Efl, l’associazione delle leghe professionistiche) relativo al periodo 2011-17: qui la Serie A è nona col 57,11 pe cento di tasso di reimpimento spalti, stracciata anche dall’Eredivisie olandese (88,23 per cento), dall’Eliteserien norvegese (63,33 per cento),dalla Scottish Premier League (61,89 per cento) e dalla Jupiler League belga (58,22 per cento).

La bancarotta del Giglio

Questa è la realtà con cui ci si deve confrontare, mentre si ragiona su progetti di estremo impatto urbano come il Nuovo San Siro, lo stadio che Inter e Milan vorrebbero veder sorgere nella zona del San Siro attuale, a sua volta riadattato secondo una logica da Distretto dell’Entertainment.

Una formula che aveva un suo fascino irresistibile all’inizio degli anni Duemila, ma che nel calcio pesantemente ristrutturato dal Covid nel rito e nell’economia rischia di essere oltrepassata. E intanto che aspettiamo i dati sui benefici generati per il territorio non soltanto dall’Allianz Stadium della Juventus ma anche dalla Dacia Arena dell’Udinese o dal Benito Stirpe, rimane da fare cenno all’unico, vero stadio privato nella storia d’Italia, il solo costruito ex novo anziché sorto sulle rovine di uno stadio precedente o da un suo ammodernamento: il Giglio di Reggio Emilia.

Inaugurato nel 1995, quando ancora i mantra della stadium economy non circolavano. Interamente finanziato con denaro privato, compresa la sottoscrizione di abbonamenti decennali da parte dei tifosi della Reggiana. Risultato: una storica bancarotta. Dopo un lungo periodo di limbo lo stadio è stato comprato alla seconda asta pubblica dal Sassuolo, che lo ha ribattezzato Mapei Stadium e ci gioca le partite casalinghe come se le giocasse a Sassuolo. Costo di acquisizione, nel 2013: 3,75 milioni di euro, meno dello stipendio lordo mensile di Cristiano Ronaldo. Tasso di riempimento? Beneficio economico e occupazionale per il territorio? Attendiamo telefonata dalla Trimurti.

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