La guerra commerciale del presidente Usa procede a strappi senza che la strategia alle sue spalle sia chiara. Autolesionismo, improvvisazione e caos: ma Pechino e altre economie emergenti hanno carte da giocare
La guerra commerciale di Trump procede a strappi senza che il passare del tempo chiarisca quale sia la strategia del presidente americano. I dazi «reciproci» imposti a tutti i partner commerciali il 2 aprile sono stati sospesi dopo qualche ora, mentre Trump concentrava le sue attenzioni sulla Cina, che nel frattempo non è stata a guardare.
Per entrambi i paesi i dazi superano ormai di molto il 100%, mentre il paese asiatico inizia a colpire dove per l’economia statunitense è più difficile resistere, ad esempio con il blocco dell’esportazione di terre rare, input fondamentali nella produzione di numerosi beni e infrastrutture tecnologiche.
Cerchiamo di fare ordine in questa intricata contesa, e di capire dove potremmo andare a finire. Iniziamo da Trump. Nel caos totale di annunci, decisioni e marce indietro, che inevitabilmente porta con sé un’altrettanto caotica comunicazione, sembrano emergere alcuni obiettivi, non necessariamente coerenti tra loro.
In primo luogo, ridurre i disavanzi commerciali che Trump interpreta come un sussidio agli altri paesi, che profitterebbero della ricchezza degli Stati Uniti per arricchirsi a loro spese.
Un corollario di questo riequilibrio sarebbe ovviamente la rilocalizzazione negli Stati Uniti della produzione industriale; la delocalizzazione in Cina e negli altri paesi dell’attività produttiva sarebbe l’effetto di una liberalizzazione degli scambi sviluppatasi a svantaggio degli Usa.
Veniamo con questo al secondo obiettivo della guerra commerciale, vale a dire cercare di ostacolare l’ascesa della Cina come potenza economica e geopolitica, ribadendo la supremazia americana. Infine, ma non da ultimo, Trump sembra con la sua guerra commerciale perseguire l’obiettivo di indebolire il dollaro per facilitare le esportazioni senza però, non si capisce bene come, rimetterne in questione il ruolo di valuta di riserva internazionale.
L’impatto sul sistema monetario internazionale delle azioni dell’amministrazione Trump è probabilmente l’aspetto più significativo di questa fase turbolenta, e occorrerà tornarci in un futuro Diario europeo. Ma hanno senso questi obiettivi? E le scelte di Trump consentiranno di raggiungerli?
Delle scelte masochiste
Iniziamo dal primo, il mercantilismo in salsa trumpiana per cui non è solo il disavanzo commerciale globale a dover essere eliminato, ma anche quelli bilaterali con ogni partner commerciale: anche il Lesotho che esporta diamanti negli Stati Uniti (che anche volendo non possono produrli) ed è troppo povero per comprare beni americani starebbe «rubando» e andrebbe punito con misure protezionistiche.
Si tratta di una teoria che non ha nessun fondamento, e mostra una scarsa comprensione dei benefici del commercio internazionale. Il premio Nobel Paul Krugman nota come lo scopo del commercio internazionale dovrebbe essere di consentirci di procurarci beni che non possiamo produrre in casa (o possiamo, ma a prezzi proibitivi); le esportazioni, quindi, non sono un fine in sé, ma ciò che ci consente di accumulare valuta per importare e così migliorare il benessere collettivo.
In questa ottica, se, come è il caso per gli Stati Uniti, un paese ha il privilegio di emettere la valuta di riserva internazionale la cui domanda è virtualmente infinita, dovrebbe essere ben felice di poter importare senza preoccuparsi di esportare.
Come rimarca l’ex ministro dell’economia di Clinton Larry Summers, se si ottengono beni e servizi a prezzi convenienti in cambio di pezzi di carta, chi è che fa l’affare migliore? È lo stesso argomento per cui, per anni, il Diario europeo ha fustigato l’ossessione della Germania per gli avanzi commerciali e per la compressione della domanda domestica.
L’autolesionismo
Insomma, l’idea che tutti i disavanzi sarebbero intrinsecamente «cattivi» e andrebbero eliminati non ha alcun senso. Ma, se proprio si vuole provare a trovare una logica nelle azioni del presidente americano, si potrebbe affermare che la riduzione dei disavanzi in realtà non è che un mezzo: il fine ultimo sarebbe quello di riportare la produzione industriale e l’occupazione negli Stati Uniti.
Ma anche in questo caso il presidente degli Stati Uniti sembra vivere in un mondo parallelo che non corrisponde alla realtà. Nella divisione internazionale del lavoro, è normale che lo sviluppo di un paese porti con sé la riduzione progressiva del peso dell’industria nell’economia, a favore dei servizi.
Questo processo negli Stati Uniti è iniziato nei primi anni Ottanta (ben prima che la Cina irrompesse sulla scena), e oggi il peso dell’industria nella produzione nazionale è intorno al 10%. Anche nel fortemente improbabile caso in cui le politiche di Trump fossero coronate da successo, sarebbe difficile che risalisse oltre il 12-13%; tra l’altro, con scarsi risultati occupazionali, visto l’elevato grado di automazione.
Proprio la predominanza dei servizi nell’economia e nelle esportazioni degli Stati Uniti evidenzia un’altra contraddizione. Un’illuminante intervista di Joe Stiglitz qualche giorno fa mostrava come, tra ricatti alle università, difficoltà alla frontiera per turisti lavoratori e immigrati legali e attacchi alla sanità, Trump sta picconando proprio quelle esportazioni di servizi (turismo, istruzione, salute) che sono il punto di forza dell’economia americana e che potrebbero aiutare a ridurre i disavanzi commerciali.
Tuttavia, di per sé, il fatto che la crociata protezionista di Trump non abbia nessun fondamento teorico non significa che non possa avere successo. C’è stata un’altra volta in cui gli Stati Uniti cambiarono in modo unilaterale le regole del gioco: nell’agosto del 1971 Richard Nixon annunciò la non convertibilità del dollaro e l’imposizione unilaterale di dazi del 10%, che sarebbero stati rimossi solo quando si fosse trovato un nuovo accordo sull’organizzazione del sistema monetario internazionale (cosa che poi avvenne).
Ma le condizioni erano diverse da quelle di oggi: intanto il commercio rappresentava una parte meno importante dell’economia americana (un terzo di oggi); poi, e soprattutto, nessun altro paese era in grado di opporsi all’egemonia americana (la competizione con l’Unione Sovietica non avveniva sul piano economico, ma su quello militare). Oggi è diverso, perché c’è un gruppo di economie emergenti (e, volendo, anche l’Ue, se solo decidesse cosa vuole fare da grande) che hanno un peso economico rilevante e sono in grado di rispondere all’aggressione commerciale degli Stati Uniti.
Le carte della Cina
Questo ci porta al secondo obiettivo di Trump, quello di combattere l’ascesa della Cina. E anche qui la prospettiva per gli Stati Uniti non è rosea come pretende il presidente. Qualche giorno fa un interessante articolo del Financial Times evidenziava alcuni fatti importanti: è sicuramente vero che la guerra commerciale farà male alla Cina, per cui gli Stati Uniti sono un mercato fondamentale.
Ma è anche vero che a Pechino si preparano da anni, e hanno già ridotto (da più del 20% al 13%) la quota di esportazioni verso gli USA. Inoltre, la composizione degli scambi tra i due paesi evidenzia una maggiore fragilità dal lato degli USA, che esportano verso la Cina principalmente prodotti agricoli, più facilmente sostituibili.
La soia americana potrà essere rapidamente sostituita da Pechino aumentando le importazioni dal Brasile. Sarà molto più difficile fare lo stesso per gli USA; intanto, perché importano beni ad alto valore aggiunto, con catene del valore complesse.
E poi perché molte delle importazioni dalla Cina non sono beni di consumo, ma beni intermedi da utilizzare per la produzione domestica, che la guerra commerciale rende più difficoltosa e costosa. Per riorientare le catene del valore e ridurre la dipendenza dalla Cina occorreranno anni; contrariamente a quanto avvenuto a Pechino, nessuno a Washington si è preparato a tempo, certamente non l’amministrazione Trump che fa dell’improvvisazione il proprio marchio di fabbrica.
Insomma, Trump è partito in guerra con una visione del mondo confusa e sottovalutando le carte che partner e (soprattutto) avversari hanno in mano. Alla fine l’unico risultato di questa crociata azzardata e improvvisata rischia di essere la perdita di fiducia nell’economia americana e nel dollaro (la Cina ha parecchie carte in mano). Sarebbe un cambiamento di regime epocale, su cui torneremo presto.
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