Sarà un primo maggio dei rider, dedicato ai lavoratori delle piattaforme della consegna pasti, per usare termini italiani, o food delivery. Dopo la risonanza avuta con lo sciopero del 26 marzo, il “No delivery day”, la rete “Riders per i Diritti” rilancia la mobilitazione con cortei di ciclofattorini in almeno trenta città per la Festa del Lavoro. E sarà un po’ una prima per loro, un primo Primo maggio al quale partecipare con tanto di riconoscimento: sfruttati sì ma sindacalizzati, quindi con la speranza di migliorare la propria condizione. Un passo in avanti storico o forse anche meno, se si paragona alle tutele strappate dai “gigworkers” nel mondo anglosassone, persino in India.

Durante l’ultimo anno anche i nipoti dei pony-express sono usciti dall’invisibilità e hanno iniziato anche in Italia a conquistare pezzetti di diritti sindacali. La strada però è ancora lunga e in salita, ma soprattutto con un grosso ostacolo nel mezzo: il contratto firmato dal sindacato Ugl e da Assodelivery, l’associazione imprenditoriale che rappresenta cinque delle maggiori piattaforme di consegna di pacchi alimentari (Glovo, Uber Eats, Deliveroo e Social Food). È proprio contro quel contratto - paradossalmente, visto che si tratta del primo contratto europeo della categoria - che manifesteranno i rider della rete autorganizzata. Un contratto “pirata”, firmato da un sindacato “giallo”, ad uso e consumo della controparte: così sarà scritto nei cartelli attaccati sulle pettorine e sui borsoni colorati. Un giudizio condiviso da Cgil, Cisl e Uil, che sono riusciti a firmare un altro contratto con la più grande delle piattaforme, e anche l’unica non in perdita: Just Eat oggi assorbita da Take Away, che si è sfilata dal contratto “pirata” per riconoscere ai rider un ruolo più simile a quello tipicamente subordinato, un contratto legato al comparto logistica. “Il contratto di Just Eat non è il migliore del mondo, alcune criticità stanno emergendo e può essere ancora migliorato, ne stiamo monitorando la prima fase di applicazione proprio in queste settimane mentre stanno arrivando i primi pacchetti di assunzioni a Monza, Brescia, Reggio Emilia”, è la considerazione di Tommaso Falchi, fondatore della “Riders Union" di Bologna, da cui ha preso avvio la battaglia per i diritti della categoria che non esisteva, essendo allora fatta ancora di invisibili con la Carta di Bologna. Poi è arrivata la legge 128 del 2019, al quale però Assodelivery e Ugl si sono sottratti con il loro contratto. Nel mezzo era stata la magistratura a intervenire. Il procuratore capo Francesco Greco ha riconosciuto quel lavoro come “eterodiretto”  favorendo le assunzioni in pianta stabile.

Ma è proprio ciò che il presidente dell’Assodelivery Matteo Sarzana non è disposto a riconoscere. “Le piattaforme di food delivery sono strumenti di intermediazione che mettono in contatto domanda e offerta, ovvero clienti, ristoranti e rider: per questa ragione i rapporti di lavoro non possono che essere compensati in base alle prestazioni svolte, non in base al tempo di login, che non rappresenta l’orario di lavoro”. É così che rivendica il “free-login”, il diabolico meccanismo di subordinazione all’algoritmo che regola paghe e rapporti di lavoro nel contratto Assodelivery e che invece le Rider Unions vorrebbero “solo stracciare” perché non riconosce di fatto una paga oraria e incatena il fattorino ad un cottimo senza tetto né legge. Di libero c’è in effetti veramente poco. Il rider è tenuto a dare la propria disponibilità oraria online, ad essa è vincolato anche sotto la grandine. La parte “free” è piuttosto riservata alla piattaforma. Se non ci sono ordinazioni, la disponibilità non conta e niente paga, se invece ci sono la paga oraria minima è 10 euro. È in questo modo che l’algoritmo assegna le commesse arrivate alla app di Uber Eats o Deliveroo. Mentre Glovo preferisce calendarizzare gli impegni attraverso “slot” orari e punteggi premio per i più disponibili. In tutti i casi non è prevista malattia pagata, niente ferie, niente liquidazione: in tutto e per tutto il lavoratore è considerato da contratto un professionista autonomo.

L’Ugl rivendica questa impostazione. “Qui non siamo di fronte ai fattorini di Amazon, è un tipo di prestazione diversa”, afferma Vincenzo Abbrescia, segretario della neonata federazione Ugl-rider. A suo modo di vedere non si può applicare il contratto della logistica. Il guadagno, e non lo stipendio, dipende da tante, troppe variabili, che possono essere una partita di calcio, una giornata di festa con più ordinativi, il meteo, un impegno familiare per cui il fattorino non si può rendere disponibile in quel giorno o in una data fascia oraria. “Si vedono come autonomi, vogliono essere autonomi. E noi con l’accordo del 15 settembre abbiamo fissato un primo “range” di tutele”, così risponde all’accusa di non essere rappresentativi della categoria. Ma sugli iscritti glissa: “Si tratta di un dato sensibile, c’è la privacy”. Cede la parola a Gianluca Mancini, un vero rider romano dell’Ugl, il quale è molto più duro nei toni. “I rider sono con noi e stanno organizzando manifestazioni contro il contratto di Just Eat che li vuole subordinati in molte città”. Il contratto appoggiato dai confederali per lui è una truffa, i pacchetti mensili da 10, 20 o 30 ore di lavoro corrispondono a stipendi che vanno da 250 a mille euro al massimo e non sono appetibili per chi come lui deve camparci una famiglia con l’opportunità di vivere in una grande città. “Pazienza se non ho i contributi, mi pago la pensione privata con quello che incasso a fine mese, posso arrivare fino a tremila euro”, assicura Mancini.

È arduo andare oltre gli steccati e la contrapposizione tra i sindacati, significa addentrarsi nel diritto del lavoro. Nel caso italiano l’ordinamento prevede un sistema sostanzialmente binario: o subordinato o del lavoratore autonomo. Il diritto anglosassone include una terza figura, il “worker”, una via di mezzo che alcuni ritengono più calzante per chi dipende dalle piattaforme, autonomo ma con alcune delle tutele del dipendente. La via di mezzo tra “employer” e “self-employer” è quanto è stato codificato di recente in India. Anche i “ragazzi del té” chiamati a rifocillare gli operatori dei call center devono sottostare al “Code on Social  Security,” così come i guidatori di risciò e gli addetti al “ride sharing delivery”. Basta che siano chiamati tramite app. Con il contagio che corre senza freni, il governo di New Delhi gli ha riconosciuto un ruolo da “infrastruttura pubblica” e si è posto il problema di come rendere più ampio l’ombrello delle protezioni sociali per i 3 milioni di “gig-workers”. Paga il governo indiano.

Mohamed Noori è afgano, è scappato cinque anni fa dalla guerra a bassa intensità che le truppe Nato e italiane stanno per abbandonare in questo mese di maggio e appena ventenne ha raggiunto Milano. Non è stata una grande accoglienza. L’unico lavoro che ha trovato è quello che poteva trovare anche a New Delhi: portare pasti a domicilio per conto di una multinazionale del “food delivery”. Correndo in strada per 9-10 ore al giorno per circa 3-4 euro a consegna riesce a pagarsi una stanza da 350 euro nell’hinterland milanese, le rate della bici elettrica e talvolta anche a spedire cinquanta euro alla moglie e al figlio in Afghanistan. Non tutti i mesi. I suoi “paesani”, è così che chiama gli immigrati con un lavoro a pedali come il suo, a fine giornata dormono tra i cartoni o nelle cascine abbandonate. Si deve ritenere fortunato. Ma ha meno tutele che in India.

A Milano come a Roma e nelle grandi città durante la pandemia i rider immigrati si sono moltiplicati. Di certo non è un “lavoretto” per loro, hanno una metropoli a disposizione, ma non riescono lo stesso a viverci dignitosamente. Dietro la stazione Termini quasi ogni sabato si ammassano per ricevere i pasti caldi di qualche associazione caritatevole. Il contratto che li amministra, quello firmato dall’Ugl e da Assodelivery, non permette neanche di chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno. Mohamed Noori ha lo status di rifugiato ma lo stesso ha fatto richiesta online per essere assunto da Just Eat come dipendente e sarà in strada il Primo maggio. Perché, spiega, “anche se non vado in fabbrica, voglio rispetto per il mio lavoro, me lo merito”.

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