Settimana scorsa, la Bce ha deciso di lasciare invariati i tassi di interesse. In Italia, molti hanno tirato un sospiro di sollievo. Tenuto conto della continua revisione al ribasso della stima di crescita dell’area euro per il 2024 (scesa allo 0,9 per cento secondo la Bce), è ormai quasi certo che di aumenti non ce ne saranno più.

Ma forse il sollievo maggiore è venuto dalla decisione di non ridiscutere il reinvestimento dei titoli in scadenza acquistati con il programma di sostegno all’economia previsto ai tempi della pandemia (Pepp), oltre alle cedole, e di mantenerlo fino alla fine del 2024 come previsto; e dalla conferma data da Christine Lagarde del fatto che nessuno abbia chiesto di anticipare la scadenza del Pepp, come invece lasciavano intuire le dichiarazioni di alcuni banchieri. E neppure si è discusso dell’aumento delle riserve obbligatorie delle banche, come qualche indiscrezione di stampa faceva presagire.

Però nel comunicato della Bce si ribadisce che i reinvestimenti del Pepp non sono incondizionati e saranno «gestiti in modo da evitare interferenze con l’orientamento della politica monetaria considerato appropriato», ed è questo il vero nodo che la Bce dovrà affrontare l’anno prossimo.

L’importanza del Pepp

L’importanza del Pepp per l’Italia è presto detta: le risorse finanziarie che la Bce incassa con i titoli in scadenza e le cedole del Pepp possono essere utilizzate per l’acquisto del debito pubblico dei vari paesi con un elevato grado di flessibilità, e di fatto costituiscono il paracadute da aprire previsto dal programma anti-frazionamento (Tpi) in caso di una crisi del debito nell’area.

In realtà serve principalmente all’Italia permettendo alla Bce di intervenire autonomamente con acquisti di Btp in caso di attacchi speculativi. Una fine anticipata del Pepp lascerebbe alla Bce la possibilità di acquistare titoli di un singolo paese (programma Omt) solo se questo aderisse a un programma di ristrutturazione del Mes, che però l’Italia non ratifica, e non intende utilizzare se lo ratificasse.

Le implicazioni in caso di esodo degli investitori dal nostro debito pubblico sarebbero ovvie. La questione fondamentale per la Bce è l’orientamento appropriato della futura politica monetaria nel corso del prossimo anno, e la coerenza di questa con la continuazione del Pepp. La risposta non è scontata. Quanto sta succedendo negli Stati Uniti fa capire il problema che la Bce dovrà affrontare, e quanto il sollievo di oggi possa essere illusorio.

Negli Stati Uniti come in Europa, il sostegno all’economia prima per la pandemia da Covid, poi per la crisi energetica, l’aumento delle spese militari e dei costi economici causati dai rischi geopolitici, e i finanziamenti statali per facilitare la transizione ambientale, hanno prodotto deficit nei conti pubblici di dimensioni storicamente inusitate, che necessitano di grosse emissioni di debito negli anni a venire poiché l’aggiustamento fiscale non è ancora cominciato, né potrebbe avvenire in un momento di rallentamento globale come quello che stiamo vivendo a causa della necessità di riportare l’inflazione sotto controllo tramite la politica monetaria.

L’espansione fiscale è avvenuta senza ripercussioni sui tassi perché accompagnata dai massicci acquisti di titoli di stato da parte delle banche centrali (il Qe), che hanno portato la dimensione del bilancio della Federal reserve dal 5 per cento del Pil nel 2007 al 29 attuale, dopo aver toccato un massimo del 35, e ancora di più quello della Bce passato dal 10 del 2007 al 54, con un massimo del 60.

Fed e Bce

Quando la Banca centrale compera titoli immette liquidità nel sistema: come conseguenza degli acquisti massicci sono quindi aumentate a dismisura anche le riserve delle banche commerciali; nel caso dell’area euro anche per via dei prestiti agevolati da parte della Bce, che le banche hanno poi trovato conveniente parcheggiare in parte presso la stessa banca centrale, dato il differenziale di tasso favorevole.

Fed e Bce hanno risposto all’inattesa accelerazione dell’inflazione con il più rapido e consistente aumento dei tassi di riferimento degli ultimi trent’anni: aumentando il costo dei prestiti, che sono tipicamente a tasso variabile, si rallenta la domanda.

Ma la politica monetaria, per essere efficace nel contenere l’inflazione, deve anche riassorbire l’eccesso di liquidità creata con il Qe, e lo può fare solo riducendo la dimensione del bilancio della banca centrale tramite la riduzione dei titoli in portafoglio.

La Fed ha già cominciato a farlo, per 75 miliardi al mese; ma non la Bce, che mantiene il Pepp e per ora si è limitata a azzerare entro la fine dell’anno i prestiti a lungo termine alla banche. Ma se da una parte il deficit richiede l’emissione di grandi quantità di debito pubblico a lungo termine, proprio mentre la banca centrale invece di acquistarlo, lo vende, sorge la necessità di trovare gli investitori privati disposti ad assorbirlo.

Questi ultimi, per farlo, richiedono rendimenti sempre più elevati e un premio per il rischio proporzionale alla durata del titolo. Questo spiega l’aumento dei tassi a lungo termine, con il decennale americano che per la prima volta in trent’anni ha superato il 5 per cento, ben oltre il livello atteso di inflazione durante la vita del titolo, con la conseguenza che il rendimento reale sui titoli indicizzati per la stessa durata è arrivato a sfiorare il 2,5 per cento, alzando considerevolmente l’asticella dei rendimenti richiesta per i nuovi investimenti.

Questo mette in crisi le imprese i cui margini si contraggono, e i debitori le cui attività non crescono molto più rapidamente dell’inflazione. Il problema non sono più quindi i tassi a breve che Fed controlla, e che ci si aspetta rimangano ai livelli attuali, ma quelli a lungo termine.

La volatilità dei mercati finanziari negli ultimi tempi riflette il timore che le perdite accumulate sui titoli di stato e sulle obbligazioni corporate (i prezzi infatti si muovono inversamente coi rendimenti), e il perdurare degli elevati rendimenti possa causare l’emergere di perdite inattese nel settore finanziario e una catena di insolvenze nel settore corporate e immobiliare.

Oltre agli immobili commerciali, preoccupa che il 50 per cento del debito emesso dalle imprese di media dimensione americane scada a breve termine entro il 2027. Un dato ancora più rilevante è che questa percentuale per il totale delle imprese europee sale a circa 70. Cruciale dunque capire quanto a lungo possano durare le tensioni sul mercato dei totali di stato e corporate bond causate dal conflitto tra politica monetaria e fiscale. Molto a lungo, almeno secondo una simulazione prodotta da un ex presidente della Federal reserve di New York secondo cui, mantenendo l’attuale ritmo di disinvestimento dei titoli da parte della Fed, e stante il deficit pubblico previsto, ci vorranno almeno due anni di politica monetaria restrittiva per portare le riserve bancarie dall’attuale 12 per cento del Pil all’8 che la banca centrale giudica coerente con una crescita non inflazionistica.

Ridurre il bilancio della Bce

Ed è proprio questo il problema che la Bce dovrà affrontare l’anno prossimo. Anche considerando il rimborso degli ultimi 500 miliardi di prestiti a lungo termine, agli ultimi dati le riserve bancarie presso la Bce ammontano a circa 90 per cento del Pil dell’area euro: non so quale sia il livello appropriato delle riserve ma certamente la liquidità in eccesso attuale non mi sembra coerente con l’orientamento anti inflazionistico della politica monetaria.

Il problema quindi di ridurre la dimensione del bilancio della Bce iniziando con la fine del reinvestimento dei titoli in scadenza del Pepp sulla falsariga della Fed, prima o poi si riproporrà. E in quel momento il nostro debito pubblico, visto anche il disavanzo primario che il governo intende mantenere pure nel 2024, potrebbe essere facilmente oggetto di una crisi di fiducia da parte degli investitori. Mi piacerebbe proprio sapere se il governo ha tenuto debito conto di questo scenario quando ha adottato una strategia di contrapposizione sulla ratifica del Mes e sul patto di stabilità. Temo di no.

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