La relazione della Corte dei conti sui rapporti finanziari tra Italia e Unione europea lo mette in chiaro: la distribuzione dei fondi del Next Generation Eu funzionerà in maniera diversa rispetto ai normali fondi europei e avrà una condizionalità «più intensa e stringente» che necessita meccanismi diversi di monitoraggio, ma che proprio per questo non possono essere sottratti a controlli giudiziari o concentrare i poteri nelle mani di pochi come si poteva rischiare con la cabina di regia in un primo momento proposta dal primo ministro Giuseppe Conte.

Il paradosso del divario

I magistrati contabili ieri hanno pubblicato la relazione annuale sui dati del 2019 sui fondi che diamo e riceviamo dall’Unione europea e sulla nostra capacità o incapacità di spesa. Nel periodo 2013-2020, il nostro paese risulta ancora il quarto contributore netto al bilancio dell’Unione, dietro a Germania, Francia e Regno Unito, con 5,2 miliardi di media di contributo annuale. Ma questo senza contare il valore aggiunto del progetto europeo che la Corte dei conti non calcola, ma un briefing tecnico della Commissione europea stima per l’Italia più basso di altri paesi ma comunque pari a circa il 4,3 per cento del Pil e 81,6 miliardi l’anno (su dati del 2018).

Le cose potrebbero in ogni caso cambiare con il programma Next Generation Eu di cui l’Italia è prima beneficiaria e con gli altri nuovi strumenti europei che ricorda la Corte invertiranno «con ogni probabilità, anche sul piano finanziario, la tradizionale posizione di contributore netto dell’Italia». Ma qualsiasi sia l'ammontare dei fondi in arrivo, gli effetti dipendono dalla nostra capacità di spesa.

Con il risultato paradossale che finora, nonostante le regioni meno sviluppate quindi con il minore Pil procapite, che è il criterio più importante per la distribuzione dei fondi Ue, siano quelle che ricevono più finanziamenti europei in assoluto e anche in più fondi Ue in proporzione all’investimento totale – per l’ultimo bilancio erano Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sicilia – proprio «a causa della differente capacità di spesa tra le regioni più sviluppate e quelle meno», la Corte dei Conti «conferma l’aumento del divario di sviluppo tra le prime e le seconde», quando i fondi europei servirebbero esattamente per colmarlo, il divario.

Considerando, per esempio, i primi dieci mesi del 2020, nelle regioni più sviluppate c'è stato un avanzamento della spesa del 14 per cento rispetto alla fine del 2019, in quelle meno ci fermiamo al 7,82 per cento, e questo a prescindere da dove abbia colpito la pandemia.

Investimenti quintuplicati

L'arrivo di Next Generation Eu è una sfida nella sfida. Da una parte per l’importo dei fondi: il Recovery e resilience facility corrisponde all’'arrivo di una media di 35 miliardi di euro l’anno di fondi da investire quando, come fa notare la stessa Corte dei conti, 40 miliardi di investimenti pubblici sono quelli che l’Italia ha fatto negli ultimi cinque anni. Ma è una sfida anche per le novità che porta con sé. La peculiarità del programma, si legge nella relazione, è quella di «rovesciare la prospettiva consueta di gestione dei fondi europei, prevedendo rimborsi a consuntivo non in base ai pagamenti effettuati, ma in base alla prova che le azioni programmate sono state realizzate ed hanno prodotto i risultati attesi in termini di benessere economico e sociale».

Oggi noi sappiamo che la media della nostra capacità di spesa è inferiore a quella europea anche se stiamo migliorando, ma il monitoraggio del raggiungimento degli obiettivi a lungo termine viene trascurato. Cioè sappiamo se l’amministrazione pubblica ha pagato le ditte che hanno costruito un depuratore, controlliamo meno se quel depuratore funziona e come ha cambiato la qualità della vita di chi ci abita attorno. A dirlo sono sempre i magistrati contabili delle sezioni regionali che appuntano come «si trascura di verificare nel tempo che i risultati sperati siano duraturi, anche se soltanto risultati duraturi possono contribuire al raggiungimento della coesione economica e sociale».

La soluzione che viene suggerita è prendere in considerazione due variabili troppo spesso messe in secondo piano. Il suggerimento è, infatti, «prestare attenzione non solo alla qualità della spesa, ma anche alla qualità dei progetti finanziati e sulla tempistica della loro realizzazione». Eppure il monitoraggio delle tempistiche e l’elenco degli obiettivi verificabili è proprio quello che manca nell’ultima versione del Recovery plan.

No alla concentrazione di poteri

La Corte dei conti spiega chiaramente che mettendo l'accento sugli obiettivi raggiunti il nuovo meccanismo «introduce una forma di condizionalità più intensa e stringente» e che rafforza il legame con le riforme. Tra queste sono elencate la riforma fiscale, la riforma della giustizia civile e quella del mercato del lavoro.

Ma proprio per questo, dicono i magistrati contabili, è rilevante il modello di gestione del piano. I principali Paesi europei hanno scelto soluzioni diverse, ma spesso «si riscontra un ruolo centrale della struttura ministeriale deputata all’amministrazione finanziaria».

L’importante è che ci sia una gestione capace di «intercettare tempestivamente» i problemi e di correggerli, ma anche che risponda «all’esigenza di evitare i fenomeni corruttivi su vasta scala» o «concentrazioni di poteri troppo ampie in sedi che non abbiano sufficiente accountability nei confronti del circuito rappresentativo». Una descrizione che fa pensare alla cabina di regia ipotizzata da Conte tanto più che la Corte sottolinea «le problematiche che presenterebbe una eventuale scelta di sottrarre aree gestorie eccessivamente vaste agli ordinari meccanismi di responsabilità politico-amministrativa, ad una verifica giudiziaria e ad un controllo (variamente inteso e configurato) indipendente ed imparziale» quando i manager ipotizzati dalla presidenza del consiglio erano appunto esenti dal controllo della stessa Corte dei Conti.

 

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