I sindacati lo aspettano al varco ma lui non si è fatto vedere: Giancarlo Giorgetti venerdì 26 marzo ha ribadito l’importanza di aprire un tavolo sul settore dell’auto ma non ha indicato ancora una data per il primo incontro. Eppure il dossier è tutt’altro che irrilevante. Forse non è urgente come quelli di Alitalia o dell’Ilva, ma in prospettiva è molto più importante. L’automotive nel suo complesso realizza in Italia un giro d’affari di 106 miliardi, pari al 6 per cento circa del Pil, impiegando più di 27mila persone. E molte cose sono cambiate in questi mesi: la Fiat, diventata Fiat-Chrysler (Fca) sotto Sergio Marchionne, si è fusa con il gruppo francese Psa dando vita a Stellantis.

L’approdo degli Agnelli

La casa automobilistica degli Agnelli ha trovato finalmente un solido approdo e, insieme alla società creata dalla famiglia Peugeot, è ora al sesto posto tra i maggiori produttori di veicoli del mondo. Ma i sindacati sono preoccupati: gli stabilimenti italiani sono al sicuro? E quante aziende della componentistica rischiano di essere messe fuori gioco dalla concorrenza dei fornitori del gruppo Psa? Per questo il 17 marzo Fiom, Fim e Uilm hanno sollecitato l’esecutivo di Mario Draghi «ad aprire un tavolo specifico di settore. Alla garanzia degli stabilimenti e dei lavoratori, bisogna dare concretezza oltre agli annunci e il governo deve sostenere l’intera filiera ed essere garante anche degli impegni assunti da Fca nel momento della richiesta del prestito di oltre sei miliardi». I sindacati si riferiscono al prestito “Covid” da 6,3 miliardi con garanzia pubblica concesso lo scorso anno a Fca da Intesa Sanpaolo. Un finanziamento vincolato, tra l’altro, al mantenimento dei livelli occupazionali in Italia, al blocco delle delocalizzazioni e alla conferma dei cinque miliardi di euro di investimenti nel nostro paese precedentemente annunciati dal gruppo italo-americano.

Il tema degli aiuti pubblici al settore dell’auto è fondamentale: l’Italia sta perdendo terreno in Europa come costruttore di veicoli e questo si traduce in un impoverimento del tessuto industriale e in una perdita di occupazione. Uno studio condotto negli Usa dal Center for automotive research ha mostrato che ogni nuovo posto di lavoro diretto nell’industria automobilistica ne genera quattro in altri settori. Ma da anni i governi che si sono succeduti a Roma si sono limitati a fornire qualche aiutino agli Agnelli e al mercato dell’auto senza affrontare il nodo, ovvero creare le condizioni affinché l’Italia ritorni una importante base produttiva di autovetture del continente europeo invece di farsi superare da Germania, Spagna, Francia, Repubblica Ceca e perfino dalla Slovacchia.

Le quattro fasi

Del resto nel corso del tempo l’atteggiamento dello stato verso la Fiat è profondamente cambiato. In una ricerca presentata in Senato qualche anno fa da Prometeia e Unioncamere, la relazione tra Roma e Torino viene suddivisa in quattro fasi. Dagli anni Venti ai Sessanta si assiste a un insieme articolato di strumenti di intervento a sostegno dell’azienda degli Agnelli, in conseguenza dell’intensificarsi delle relazioni stato-impresa, mentre la politica industriale a livello complessivo si concentra prevalentemente sulla crescita di pochi campioni nazionali chiave, tra cui Fiat. Tra la fine degli anni Sessanta e la fine dei Settanta il sostegno pubblico alla Fiat diventa più discrezionale e aumenta il potere dello stato di incidere sugli equilibri aziendali. Negli anni Ottanta il processo di negoziazione permanente e il grado di intervento statale rimane massiccio (c’è anche la cessione dell’Alfa Romeo agli Agnelli), ma le relazioni tra stato e Fiat si indeboliscono progressivamente. Infine, nell’ultima fase, il rapporto privilegiato stato-Fiat cessa, sia per la diminuzione delle risorse pubbliche, sia per il progressivo affermarsi di forze politiche meno sensibili al sostegno delle grandi imprese.

In termini economici questo raffreddamento della relazione tra stato e Fiat si riflette in una diminuzione di aiuti diretti. Un’analisi dell’ufficio studi della Cgia di Mestre ha stimato in 7,6 miliardi gli aiuti ricevuti dal gruppo torinese dal 1977 al 2013. Ma di questa cifra, che non tiene conto degli ammortizzatori sociali, la maggior parte – quasi 5,2 miliardi – è stata elargita prima del 1990. Dopo il 1990 l’investimento diretto più importante a favore della Fiat è stato quello per la costruzione degli impianti di Melfi e Pratola Serra, costati allo stato 1,2 miliardi. Negli anni più recenti il sostegno pubblico alla casa degli Agnelli si è limitato alle rottamazioni, gli incentivi per gli acquisti di autoveicoli che hanno beneficiato comunque anche i concorrenti. Perfino durante la crisi iniziata nel 2008, come sottolinea Prometeia, l’Italia «ha confermato l’approccio non interventista iniziato a metà degli anni Novanta, rappresentando un’eccezione sul panorama europeo. Fiat, monopolista della produzione finale, a parte Lamborghini, è stato l’unico tra i produttori europei ad affrontare la crisi in autonomia», con il sostegno pubblico «incentrato sulla predisposizione di strumenti di incentivo della domanda finale mediante piani di rottamazione».

L’interventismo degli altri

Anche in occasione dell’emergenza Covid-19 lo stato italiano ha fatto a meno degli altri per l’industria dell’auto, a parte il prestito garantito dalla Sace. Ben diversa è stata la politica industriale nei paesi a noi vicini: in Francia il governo è azionista con il 15 per cento di Renault e con il sei per cento di Stellantis e, come ricorda Rachele Sessa del Centro studi della fondazione Ergo specializzato in analisi dei settori industriali, Parigi ha fornito prestiti per tre miliardi alle due case automobilistiche durante la crisi del 2008 e altri cinque miliardi alla sola Renault lo scorso anno. «In Germania lo stato invece non ha investito direttamente tanto denaro, piuttosto ha agevolato e favorito con azioni continue e strategiche, con supporti politici e di lobby la creazione di una rete di stabilimenti e di fornitori distribuiti in tutta Europa che consentissero all’industria tedesca dell’auto di diventare la potenza che è a livello mondiale». La Spagna da parte sua ha supportato il mercato dell’auto aprendo le porte alle multinazionali e con un forte supporto legislativo: per esempio con la riforma del mercato del lavoro, varata nel 2012 e finalizzata a introdurre maggiore flessibilità e attirare gruppi stranieri.

La verità è che non conta solo dare soldi all’automotive, ma mettere questo settore al centro della politica industriale, come si sono ricordati recentemente Pd e M5s, ma solo quando il Recovey plan era già scritto e si era aperta la crisi politica su come modificarlo. Se l’obiettivo di quei 10 miliardi di aiuti pubblici versati agli Agnelli dal 1977 a oggi (considerando anche il prestito Covid) è stato di sostenere la produzione di veicoli e l’occupazione, possiamo dire che non è stato centrato. Un documento dell’Ilo (l’organizzazione internazionale del lavoro) sul futuro del settore automobilistico mostra che l’occupazione nel settore «veicoli a motore, rimorchi e semirimorchi» è passata in Italia da 172.716 lavoratori nel 2009 a 161.637 nel 2018 con un calo del 6 per cento. In Francia si mantiene su quota 220mila, in Germania addirittura conta oltre 851mila addetti. Fra il 1990 e il 1999 la produzione italiana di autoveicoli è stata mediamente di 1,7 milioni di pezzi all’anno. È scesa a 1,3 milioni fra il 2000 e il 2009 e a 889mila fra il 2010 e il 2019. Riguardo all’occupazione, ovviamente senza considerare Magneti Marelli nel frattempo ceduta e il passaggio di Ferrari a Exor, a fine 2020 Fca dava lavoro in Italia a circa 47mila dipendenti diretti, tremila in meno rispetto al giugno 2004, data di avvio dell’èra Marchionne.

Aspettando Giorgetti

«Da tempo lo stato italiano ha perso dal suo mirino il settore dell’auto», avverte Rachele Sessa «e sarà fondamentale vedere se al Mise il ministro Giorgetti si farà affiancare da una squadra di esperti del settore automotive così da poter costruire una strategia efficace per valorizzare un settore tanto importante quanto complesso. Solo così potrà supportarlo con leggi, azioni di lobby, scelte politiche oltre che agevolando e stimolando investimenti mirati».

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