La transizione energetica e una mobilità meno inquinante sono fra i punti più importanti del programma di governo. La elettrificazione del trasporto su gomma trova ben noti ostacoli nella scarsa autonomia delle batterie, nei loro tempi di ricarica, nell’inquinamento che provocano e nei materiali rari necessari a produrle.

Al bivio sull’energia

Per superare questi ostacoli Tesla ha brevettato nuovi tipi di batterie che saranno prodotte in grandi quantità anche da Panasonic in Nevada fra pochi mesi. I limiti delle batterie rendono tuttavia appetibili altre strategie. L’idrogeno, meno inquinante e abbondante in natura, costituisce una alternativa molto appetibile. L’utilizzo dell’idrogeno nel settore del trasporto trova però a sua volta degli ostacoli nell’altissima pressione a cui esso va conservato che richiede serbatoi ingombranti e pesanti. Questi serbatoi, già usati in auto di notevoli dimensioni, come la Toyota Mirai, mal si adattano ad auto o a motocicli di modeste dimensioni. Questo mese, il Fraunhofer, l’istituto pubblico di ricerca tedesco che fra le tante cose si dedica anche allo sviluppo di materiali avanzati, ha annunciato di aver brevettato una pasta all’idrogeno a base di magnesio che è anche esso un materiale abbondante in natura. Questa pasta, intrappolando e conservando l’idrogeno a temperatura ambiente senza problemi di pressione, permetterebbe di alimentare persino motorini e bici elettriche.

L’Italia che non c’è

In questa competizione fra due direttrici tecnologiche per la transizione energetica, l’Italia risulta quasi assente. Lo scarso numero di brevetti costituisce una ben nota debolezza della nostra economia.

Le imprese italiane hanno visto crescere negli ultimi anni la loro quota di brevetti. Lodevoli risultati sono stati, per esempio, ottenuti da Ansaldo energia controllata dallo stato e da G. D. di Bologna produttrice di macchine automatiche per l’impacchettamento. Sono risultate le prime imprese italiane per numero di brevetti rispettivamente nel 2017 e 2018. Tuttavia, il numero di brevetti richiesto dalle imprese italiane resta basso. Nel 2018 ci sono state solo 4.399 domande italiane di brevetto contro le 26.374 della Germania, le 10.317 della Francia, le 7.927 della Svizzera e le 7.140 dell’Olanda. I modelli organizzativi di Tesla e del Fraunhofer ci aiutano a capire le ragioni di questa debolezza della nostra economia.

Tesla è nota per il suo solenne impegno a non fare causa imprese che usano senza permesso i suoi brevetti. Questo impegno viene però qualificato con alcune condizioni: che queste imprese non copino mai un design della Tesla, che non brevettino a loro volta e che usino “in buona fede” la tecnologia di Tesla. In quanto giudice monocratico di questa buona fede, Tesla può porre le imprese concorrenti in una situazione di debolezza e si assicura il diritto di usare i loro miglioramenti, mentre cerca di rendere la propria tecnologia uno standard condiviso dell’industria automobilistica. Ben nota per un uso aggressivo del segreto industriale, Tesla continua a brevettare numerose innovazioni come batterie sempre più efficienti. Poter bloccare gli altri senza che gli altri la possano bloccare costituisce una consolidata strategia per garantirsi un proficuo sentiero di innovazioni e, in futuro, alti livelli di produttività.

La politica dei brevetti

Se Tesla rappresenta il classico caso di grande impresa americana che cresce rapidamente prima in valore azionario e poi nella produzione, Fraunhofer costituisce, invece, una modalità di intervento pubblico a favore di medie e piccole imprese.

È una organizzazione pubblica non-profit finanziata in parte dallo stato federale tedesco e dai Länder tedeschi e in parte con contratti di ricerca. Con un personale di 28mila addetti, in gran parte scienziati e ingegneri, esso costituisce la più grande organizzazione per la ricerca applicata esistente in Europa e stimola le piccole e medie imprese tedesche a cooperare nella acquisizione di brevetti.

Oltre al lavoro su contratto, Fraunhofer ha anche lo scopo di acquisire un pacchetto di brevetti in campi di futura applicazione industriale da mettere a disposizione delle piccole e medie imprese tedesche. A seguito di un brevetto acquisito in un progetto fatto in cooperazione con una impresa, Fraunhofer può anche concedere a questa una licenza esclusiva ma di regola la proprietà del brevetto resta del Fraunhofer in modo da far circolare il più possibile conoscenze e tecnologie fra le imprese tedesche.

A differenza della Germania e degli Stati Uniti, l’Italia non ha grandi imprese con nutriti portafogli di brevetti e non ha nemmeno, come la Germania, una organizzazione pubblica che aiuti le piccole imprese a investire e condividere la proprietà intellettuale. La classifica Epo (European patent office) delle prime 50 imprese per numero di brevetti richiesti è capeggiata dalla tedesca Siemens che ha da sola più della metà dei brevetti di tutta l’Italia mentre nessuna impresa italiana figura in questa classifica.

Nuove joint venture in settori ad alto contenuto di innovazione fra grandi imprese a partecipazione statale e una riforma del governo societario potrebbero costituire uno strumento di politica industriale che permetta all’Italia di raccogliere le sfide poste dalla proprietà intellettuale. Ancora più importante è cercare di formulare delle politiche industriali che possano aiutare le piccole e medie imprese italiane ad affrontare le sfide poste dalle innovazioni e dalla proprietà intellettuale. A questo scopo è utile ricordare quanto succedeva negli anni Ottanta quando il sistema italiano delle piccole imprese era visto come quello più adatto a fronteggiare le sfide poste dalla economia della conoscenza e veniva imitato in altre parti del mondo.

L’illusione dell’eccellenza del modello italiano si è verificato in una breve congiuntura favorevole, quando nei processi produttivi cominciava a essere rilevante il ruolo della conoscenza ma la sua privatizzazione a livello globale era in uno stato ancora iniziale.

La conoscenza sembrava incorporarsi in macchine sempre più flessibili che richiedevano minori economie di scala e di scopo e potevano essere al meglio utilizzate da lavoratori qualificati impiegati in piccole imprese raggruppate in distretti industriali. In questi distretti si poteva sfruttare il fatto che, a differenza di un bene tangibile, la conoscenza può essere simultaneamente usata da un illimitato numero di persone e che essa si accresce grazie alla condivisione di molteplici esperienze.

La conoscenza privatizzata

Era chiaro che una privatizzazione della conoscenza avrebbe reso difficile la sua condivisione informale dalle imprese dei distretti che sarebbero anche state spesso private della possibilità di utilizzare le innovazioni sviluppate altrove. Purtroppo è stata proprio questa privatizzazione della conoscenza che ha caratterizzato la seconda metà degli anni Novanta quando, con la istituzione del Wto (l’organizzazione mondiale del commercio) e gli annessi accordi sulla proprietà intellettuale, si è data la possibilità di applicare a livello internazionale sanzioni commerciali contro le violazione dei diritti di proprietà intellettuale.

Il mutato quadro internazionale ha messo in crisi il modello organizzativo delle piccole imprese italiane.

Da quel momento non bastava più inventarsi delle nuove ricette nei distretti. Bisognava diventarne anche i proprietari acquisendo i relativi brevetti.

Ma questo richiedeva un diverso modello organizzativo basato su grandi imprese come la Siemens e Tesla oppure una organizzazione come il Fraunhofer che aiutasse e coordinasse le piccole imprese.

Da allora, data la carenza di queste due modalità organizzative, l’Italia ha visto la Germania e altri paesi acquisire la proprietà di tante ricette come la pasta all’idrogeno senza essere capace di fare altrettanto.

Solo riformando il nostro modello di capitalismo potremo ricominciare a innovare, aumentare la nostra produttività e tornare ad accrescere il nostro benessere.

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