La settimana appena trascorsa ha visto un’accelerazione del confronto tra l’Unione europea e Stati Uniti sulla politica industriale che non sembra destare l’attenzione che dovrebbe, soprattutto nel nostro paese.

Ha iniziato la Volkswagen, annunciando di aver sospeso il progetto di costruire una mega fabbrica di batterie nell’Europa dell’est e di considerare l’opzione di impiantarsi negli Stati Uniti, dove potrebbe ricevere fino a dieci miliardi di euro in sovvenzioni.

Si tratta di sovvenzioni previste dalla legge Inflation Reduction Act (Ira), approvata lo scorso agosto, che prevede 500 miliardi di dollari di spese e 740 miliardi di entrate in 10 anni. Dei 500 miliardi, 370 sono destinati a promuovere la riduzione delle emissioni di CO2, cosa che dovrebbe contribuire in maniera significativa a ridurre il ritardo che gli Stati Uniti hanno accumulato nella transizione ecologica.

Transizione ecologica e protezionismo

Quello che ha fin dall’inizio messo in fibrillazione Bruxelles e le capitali europee è il fatto che le sovvenzioni e i crediti d’imposta sono in gran parte condizionati ad una «clausola di contenuto locale», volta ad incentivare le produzioni negli Stati Uniti.

Ciò significa che si applica una fiscalità favorevole ai beni prodotti negli Stati Uniti. L’annuncio della Volkswagen dimostra che questi incentivi funzionano, non solo per gli importi in gioco, ma anche per la rapidità con cui i fondi saranno erogati.

Il secondo evento marcante della settimana è l’annuncio della Commissione, in concomitanza con la visita della presidente Ursula von der Leyen a Washington, di un ammorbidimento delle norme europee sugli aiuti di stato.

Introdotte per evitare distorsioni della concorrenza tra paesi o tra imprese, queste stabiliscono che gli aiuti sono consentiti solo in circostanze particolari e non devono mai essere utilizzati per avvantaggiare un settore o un’impresa in particolare.

I paesi europei potranno in futuro sussidiare progetti di investimento nelle tecnologie verdi se incentivi analoghi sono offerti altrove. Inoltre, riconoscendo la farraginosità delle proprie procedure, la Commissione ha annunciato che per i piccoli progetti saranno di molto accorciati i tempi per il via libera dai regolatori.

Fine del mito multilateralista

Insomma, l’Europa ha infine deciso di abbandonare il proprio credo multilateralista e liberoscambista, e di indossare i guantoni da boxe.

La guerra commerciale è lanciata, sia pure in modo velato. Come per tutti gli scenari inediti, ci sono rischi e opportunità. Intanto, si può sperare che una competizione agguerrita e il tentativo di dominare il mercato abbia l’effetto positivo di convogliare risorse pubbliche e private nelle tecnologie verdi colmando il ritardo accumulato nella corsa al raggiungimento degli obiettivi sul clima.

Alcuni temono peraltro che questa corsa ai sussidi si risolverà in un enorme spreco di denaro pubblico, che ostacolerà la transizione ecologica impedendo ai mercati di selezionare tecnologie e imprese vincenti. In una versione estrema del laissez faire, essi sostengono che bisognerebbe evitare di inseguire gli Stati Uniti: lasciamo che Volkswagen vada ad arricchirsi a spese del contribuente americano!

Quando rimpatrierà i profitti, l’Europa ne beneficerà. A parte l’ostilità preconcetta ad un qualunque ruolo per lo Stato imprenditore, quello che colpisce è l’esplicita rinuncia all’ambizione di essere una società dinamica. Che siano gli altri a produrre, ad innovare, a lavorare.

A noi dovrebbe bastare utilizzare l’abbondante risparmio delle nostre economie mature e sempre più vecchie per finanziare la crescita altrui e raccoglierne i frutti.

Invece la guerra è tutta da combattere. Le tecnologie verdi e la transizione ecologica sono “industrie nascenti” dove bisogni colossali di investimento si intrecciano con la necessità di non rimanere indietro in una corsa dove probabilmente finiranno per emergere pochi attori chiave: la presenza di economie di scala spinge a pensare che il futuro sarà dei grandi conglomerati e non della piccola industria diffusa.

Il tema della protezione temporanea e mirata dell’industria nascente si è posto fin dai tempi dell’economista tedesco Frederick List, e ha consentito lo sviluppo di paesi quali la Corea o Taiwan. L’Europa quindi fa bene a raccogliere la sfida americana.

Il nuovo contesto geopolitico ed economico rende risibile la pretesa che la politica industriale possa ridursi alla semplice protezione della concorrenza tra imprese e tra paesi.

Sono servite le insufficienze rivelate dalla pandemia (tutti ricordano la penuria di mascherine), lo shock della guerra e l’attivismo americano per infine spingere l’Ue a rimettere al centro delle proprie riflessioni la necessità della politica industriale e l’importanza economica e politica dell’autonomia strategica.

Le peculiarità europee

Nei prossimi mesi e anni si moltiplicheranno sicuramente le iniziative e le modifiche regolamentari volte da un lato a rispondere ai nostri concorrenti e dall’altro a facilitare investimento e innovazione (l’Europa peraltro non parte da zero).

Sicuramente saranno fatte cose buone e cose meno buone. Il criterio da tenere a mente è che la politica industriale dovrebbe essere definita senza mai dimenticare le specificità europee:

Nessun paese europeo è grande abbastanza per partire alla guerra da solo contro America, Cina, Indi

Non tutti sono sullo stesso piano, e occorre vegliare a che la politica industriale non finisca per aggravare le divergenze. La guerra commerciale deve essere con gli altri paesi, non tra i paesi europei.

Alla luce di questo criterio, risulta incomprensibile la leggerezza con cui i paesi più fragili dell’Ue hanno accettato che si accantonasse l’idea di un Fondo sovrano europeo (sul modello del fondo per la disoccupazione Sure creato durante la pandemia) che finanziasse le politiche industriali dei paesi membri.

Alla luce delle differenze di debito, e quindi degli spazi di manovra, l’ammorbidimento sugli aiuti di Stato consentirà a paesi come la Francia e la Germania di fare molto più dei paesi come il nostro; certo, la proposta della Commissione condiziona il via libera agli aiuti di stato ad una partecipazione ai progetti delle regioni meno ricche.

Ma non si vede come questo possa essere sufficiente ad impedire che i paesi più forti si avvantaggino della norma.

La creazione di uno Sure della transizione ecologica dovrebbe essere una linea rossa, una condizione non negoziabile per il via libera alle nuove norme sugli aiuti di stato.

Tale Fondo consentirebbe anche ai paesi con finanze pubbliche più fragili di sostenere investimenti e innovazione. Essersi limitati ad elemosinare un po’ di flessibilità sul Pnrr, pochi maledetti e subito, mostra che anche sull’Europa il nostro governo naviga a vista.

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