Negli ultimi anni, il padre del venture capital europeo Elserino Piol – scomparso a Milano il 17 aprile all’età di 91 anni – aveva soprattutto una preoccupazione: trovare una ricetta «per non far perdere il futuro» (come da titolo del suo libro) all’Italia.

Un futuro economico, industriale, e non solo, che sarebbe dovuto passare da una visione strategica dell’innovazione digitale: «Bisogna agire in parallelo, iniziando a fare le cose a breve e creando un sistema per i tempi lunghi, lavorando soprattutto sulla formazione», scriveva in quel saggio.

Formazione, cultura, alfabetizzazione digitale e utilizzo di quella che definiva “finanza buona” per aiutare le aziende innovative a crescere, seguendo l’esempio di Francia e Israele, sarebbero dovuti essere i pilastri su cui fondare un ecosistema in grado di sviluppare l’innovazione anche nel nostro paese.

Dall’uscita di Per non perdere il futuro: appunti per l’innovazione e la competitività dell’Italia sono passati esattamente quindici anni. Eppure il messaggio non sembra essere stato recepito: l’Italia è ancora oggi un nano degli investimenti in startup (addirittura assente dalla classifica di Crunchbase delle 25 nazioni, di cui 12 europee, che investono procapite maggiormente nelle aziende innovative) e un paese che sconta la cronica mancanza di un’efficace strategia digitale di lungo periodo, mentre termini fortemente pubblicizzati come Industria 4.0 e Agenda digitale si sono spesso rivelati etichette vuote (nonostante alcuni importanti passi avanti nella digitalizzazione della pubblica amministrazione).

Decentralizzare e coordinare

In maniera forse inattesa, c’è però un’azione dell’attuale governo che Piol avrebbe promosso: l’eliminazione del ministero dell’Innovazione. Com’è possibile? «Il digitale è per sua natura trasversale, dunque va da sé che non è praticamente possibile governarlo attraverso l’accentramento», spiegava nel 2013, da presidente di Fedoweb, al sito Agenda digitale. «Basterebbe lasciare che ciascun ministero faccia il suo sulle questioni che coinvolgono il digitale». Ovviamente, se ciascun ministero lo facesse davvero.

Quello suggerito da Elserino Piol, critico anche della costituzione dell’Agenzia per il Digitale (visto come ulteriore esempio di burocratizzazione), era quindi un approccio decentralizzato a livello italiano, ma che avrebbe auspicato una maggiore coordinazione a livello europeo: «Purtroppo in Europa ogni paese ha le proprie regole, e anche per questo motivo le web company americane, Google & co, hanno avuto la meglio e continuano a fare il bello e cattivo tempo».

Sono passati dieci anni, ma l’assenza di una regia comunitaria è ancora indicata come uno dei principali responsabili dell’arretratezza dell’Unione europea nello sviluppo, per fare solo un esempio, di strumenti evoluti di intelligenza artificiale rispetto a colossi tecnologici come Cina e Stati Uniti.

Il fatto che le parole pronunciate da Piol dieci o quindici anni fa suonino ancora oggi particolarmente attuali non dovrebbe sorprenderci, d’altra parte Elserino Piol, nel suo campo, è stato una delle menti più brillanti e innovative a livello europeo e mondiale.La

Alla Olivetti

Nato a Limana (Belluno) nel 1931, Piol cresce professionalmente nell’azienda simbolo delle incredibili potenzialità italiane in campo informatico e tecnologico: la Olivetti. Entrato in azienda a 21 anni come programmatore, diventa nel 1959 direttore della divisione commerciale elettronica di Olivetti e nel 1965 direttore marketing con responsabilità sulla pianificazione dei prodotti. È un ruolo che gli consentirà di sovrintendere al lancio sul mercato di Programma 101, spesso considerato il primo personal computer della storia.

A inizio anni Ottanta nell’Olivetti di Carlo De Benedetti (editore di questo giornale), Piol viene nominato direttore generale per le strategie e lo sviluppo e mandato negli Stati Uniti con l’obiettivo di creare collegamenti con le realtà più innovative di Boston e della nascente Silicon Valley.

È qui che intuisce la necessità di creare qualcosa che negli Stati Uniti è ancora agli albori e in Europa proprio non esiste: il venture capital, il finanziamento privato di progetti imprenditoriali promettenti ma rischiosi, in grado – come si legge nell’archivio storico di Olivetti – «di favorire lo sviluppo di nuove iniziative soprattutto nell’area high-tech».

È grazie a questa intuizione che Piol inizia – ancora all’interno di Olivetti, che lascerà solo nel 1996 – la sua carriera da venture capitalist, simboleggiata dalla conferenza organizzata nel giugno 1983 a Venezia, alla Fondazione Cini. La giornata, intitolata proprio “Venture Capital”, vede anche la presenza di Donald Valentine, fondatore di Sequoia, uno dei primi – e ancora oggi uno dei più importanti – fondi di venture capital statunitensi.

È qui che, come ricorda Riccardo Luna, Elserino Piol stabilisce i tre criteri fondanti dell’investimento in startup tecnologiche: la validità dell’idea imprenditoriale, anche a scapito della coerenza con le strategie dell’investitore; l’importanza di lasciare ampia libertà di manovra all’impresa finanziata, senza integrarla nel gruppo; la ripartizione del rischio, evitando di acquisire quote maggioritarie e creando invece un portafoglio articolato.

Sono le basi su cui ancora oggi, spesso, poggia l’azione dei fondi di venture capital, e che soprattutto permisero a Piol e all’Olivetti, tra i primi anni Ottanta e la metà dei Novanta, di effettuare negli Stati Uniti 63 operazioni di venture capital, investendo 138 milioni di dollari e incassando, in seguito alle cessioni, 313 milioni.

Nello stesso periodo sono ovviamente stati commessi anche degli errori di valutazione, di cui uno è celebre: Elserino Piol mediò un incontro in quello che diventerà il più famoso garage di Cupertino, tra Steve Jobs e Steve Wozniak, al tempo a caccia di investimenti per Apple, e l’allora numero uno della Olivetti. L’incontro non convinse però l’imprenditore e il tutto sfumò in quella che, con tutta probabilità, è stata un’enorme occasione mancata, come ha raccontato più volte lo stesso De Benedetti. Dopo aver intuito l’importanza cruciale delle nascenti comunicazioni mobile, Piol contribuì, sempre all’interno di Olivetti, alla nascita nel 1990 di Omnitel, poi confluita in Vodafone.

Il venture capital rimane però la sua passione professionale: nel 1996 lascia Olivetti e fonda la sua società d’investimenti assieme a Oliver Novick (altro ex top manager di Olivetti), la Pino Partecipazioni: uno dei primissimi fondi d’investimento a livello europeo (oggi non più in attività). Ripercorrere i nomi delle aziende finanziate da Piol e Novick, le cui prime lettere dei cognomi compogono appunto la sigla Pi-No, significa ripercorrere gli anni ruggenti dell’internet italiano: Tiscali, Vitaminic,una sorta di antenato di Spotify, nato nel 1998 e per qualche tempo porta d’ingresso obbligatoria per tutti gli aspiranti musicisti, Yoox, primo unicorno italiano, ovvero startup valutata oltre un miliardo di dollari, e poi ancora Click.it, Investnet, Cubeccom, Blixer e altri ancora.

Una bussola da seguire

Nel 2006 assume la carica di presidente di Fedoweb, la federazione degli operatori web, di cui dal 2016 sarà presidente onorario. Una posizione dalla quale cercherà di spronare l’Italia, seguendo la sua particolare e netta visione, ad avere più coraggio in materia di innovazione. I numeri relativi agli investimenti, alla nascita di startup, ai laureati Stem e di altro ancora ci dicono che l’insegnamento di Piol non è mai stato davvero recepito ai livelli più alti della piramide. In un paese costantemente costretto alla rincorsa sul piano digitale, il lascito di Piol può però ancora rappresentare una bussola da seguire. Per chi vorrà prendere in eredità la sua visione e concretizzarla.  

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