L’Italia insiste a bloccare la riforma del fondo salvastati, il Mes. A questo proposito, lunedì Giorgia Meloni ha detto cose che meritano considerazione. Ha giustamente ricordato che il fondo esiste comunque: bloccare la riforma non impedisce agli stati di ricorrervi. In proposito conviene, anche all’opposizione, assicurarsi di saper davvero che cos’è il Mes e in che consiste la riforma. Una semplice sintesi sta nel sito della Banca d’Italia. Vi si spiega fra l’altro perché sono fake news che la riforma «aumenta la probabilità di un default sovrano» e di una «ristrutturazione del debito», o «obbliga l’Italia a versare nuovi fondi».

Lo stigma e il messaggio

La premier si è poi chiesta perché il Mes «non sia stato attivato da nessun paese» e l’opposizione non ne abbia ratificata la riforma quand’era maggioranza. Ha trascurato di ricordare che proprio il Mes nello scorso decennio ha salvato cinque paesi dal fallimento e l’Eurozona dall’implosione. Meloni si è però data una risposta senz’altro rilevante: «Purtroppo gli stati si pongono il problema di che tipo di messaggio dà un paese che vi accede». Intendeva ricordare lo stigma di debolezza che è effettivamente, forse ingiustamente, associato al ricorso al Mes.

Ma la riforma che tardiamo a ratificare è proprio un modo per rendere il Mes più utile, aiutare a vincere gli scrupoli ad accedervi e ridurre la probabilità di salvataggi tardivi, cattivi e goffi come furono quelli di Grecia e Cipro, rafforzando le sue capacità di essere severo ma benefico, come fu per Irlanda, Portogallo e Spagna.

Una riforma utile e preziosa

Si ricorda spesso che la riforma migliora la capacità del Mes di intervenire nelle crisi bancarie fornendo garanzie ora carenti per gestirle. Pochi aggiungono che la riforma permette al Mes di migliorare un tipo di assistenza che potrebbe essere preziosa per il nostro paese, se si trovasse a essere attaccato senza adeguata motivazione economico-finanziaria dalla speculazione a breve termine sul suo debito pubblico.

Si tratta di una linea di credito «precauzionale semplice», destinata ai paesi «in condizioni economiche e finanziarie fondamentalmente sane ma colpiti da shock avversi». La riforma precisa meglio le condizioni per accedervi e, soprattutto, permette di farlo senza sottoscrivere un “memorandum of understanding” dove un Mes poco saggio potrebbe inserire clausole di “austerità” controproducenti. Rafforza cioè quell’«uso flessibile del Mes per gli stati che rispettino il Patto di stabilità» che Mario Monti riuscì a fare inserire nelle conclusioni del Consiglio europeo del giugno 2012.

Questo è proprio ciò che serve a un paese come l’Italia che, ora come allora, vuole farcela senza aiuti esterni ma che, anche se saprà esser virtuoso col bilancio, avrà comunque per tanti anni un debito di dimensioni tali da costituire per tutti un problema. Un accesso al fondo che manda un «messaggio», come lo chiama la premier, non allarmante, e calma la speculazione contro paesi coi conti in ordine.

«Non si può parlare del Mes se non si conosce il contesto»: con queste parole la premier ha confermato l’intenzione di scambiare la ratifica della riforma del fondo con un Patto di Stabilità favorevole all’Italia. Una sorta di ricatto irrituale, poco decoroso, inefficace e controproducente. Ma Giorgia Meloni potrebbe alla fine esibirne uno pseudo-successo.

Da un lato non potremo fare a meno di ratificare la riforma voluta da tutta l’Unione, dall’altro l’Europa potrebbe cedere all’idea di un Patto indebolito per non sfidare Italia e Francia imponendo aggiustamenti possibili e giusti ma decisamente rifiutati dai governi.

Il ricatto non avrà funzionato mentre avrà prevalso «il contesto», che la presidente ben conosce e che è quello dell’incontro di due debolezze: la nostra e quella di Bruxelles.

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